
Naufraghi 2.0
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Re: Naufraghi 2.0
bravi ragazzi 

Giordan ha scritto: Menzione onorevole per Pap, che si è distinto per avere la stessa voce di Battiato e la peggior pronuncia anglo-americana ogni epoca!!!
- PENNY
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Re: Naufraghi 2.0
Disimparerò
Ci si chiede se il blocco sopraggiunga alla semplice vista del foglio bianco o forse più semplicemente a una totale mancanza di talento.
Ascolti l’ipod mentre esplori la città dai finestrini sporchi di un autobus. Rifletti su qualcosa da buttar giù e decine di idee affollano il tuo già non troppo svelto cervello.
Osservi le figure che ti circondano sul mezzo pubblico e trovi tante di quelle storie che neanche il miglior Asimov saprebbe raccontarle in una sola vita, eppure tu microscopico pidocchio letterario neanche un capello sai cogliere da quel pavimento di barbiere brulicante di idee.
Volgi lo sguardo avanti a te, al semplice, banale asfalto, e cominci a divagare senza regole e direzioni…tutto a un tratto l’illuminazione: non è forse questa la principale attività? Non è forse questo adatto pretesto letterario per battere su una tastiera? La coerenza non è richiesta,neanche la linearità di pensiero, sono anzi esse mal giudicate in codesto artifizio letterario!! Quale gaudio per l’inetto e presuntuoso letterato che spera forse di aver trovato nel divagare l’oasi di mediocrità tanto cercata e nella quale adagiarsi.
Prenoti la fermata, scendi, cominci a scarpinare e l’improvviso silenzio che ti rimbomba nelle orecchie ti avverte che è ora di cambiare autore, tiri fuori, fai scorrere velocemente il pollice, clicchi, riavvolgi il filo e riponi in tasca.
Ti accorgi solo dopo che la divagazione è tutto eccetto che arte per mediocri e scansafatiche, ma ormai sei in ballo e cominci…prima o poi disimparerai.
Ci si chiede se il blocco sopraggiunga alla semplice vista del foglio bianco o forse più semplicemente a una totale mancanza di talento.
Ascolti l’ipod mentre esplori la città dai finestrini sporchi di un autobus. Rifletti su qualcosa da buttar giù e decine di idee affollano il tuo già non troppo svelto cervello.
Osservi le figure che ti circondano sul mezzo pubblico e trovi tante di quelle storie che neanche il miglior Asimov saprebbe raccontarle in una sola vita, eppure tu microscopico pidocchio letterario neanche un capello sai cogliere da quel pavimento di barbiere brulicante di idee.
Volgi lo sguardo avanti a te, al semplice, banale asfalto, e cominci a divagare senza regole e direzioni…tutto a un tratto l’illuminazione: non è forse questa la principale attività? Non è forse questo adatto pretesto letterario per battere su una tastiera? La coerenza non è richiesta,neanche la linearità di pensiero, sono anzi esse mal giudicate in codesto artifizio letterario!! Quale gaudio per l’inetto e presuntuoso letterato che spera forse di aver trovato nel divagare l’oasi di mediocrità tanto cercata e nella quale adagiarsi.
Prenoti la fermata, scendi, cominci a scarpinare e l’improvviso silenzio che ti rimbomba nelle orecchie ti avverte che è ora di cambiare autore, tiri fuori, fai scorrere velocemente il pollice, clicchi, riavvolgi il filo e riponi in tasca.
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Re: Naufraghi 2.0
PENNY ha scritto: Disimparerò
:DÂ

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Re: Naufraghi 2.0
posto questo piccolo racconto, in realtà sarebbe solo il prologo (e storia parallela) di una storia fantasy che stavo scrivendo - più per divertimento che per altro - un anno fa con un mio amico, progetto poi naufragato (non nel senso che è finito nel topic dei naufraghi :lol2:) per divergenze riguardo al plot. A voi :D (ah, la divido in due parti per comodità):
Il rumore della battaglia era come la furiosa risacca notturna dell’oceano in tempesta, il fragore dei metalli che cozzavano fra loro assumeva uno strano e glaciale ritmo dopo un po’ che si restava ad ascoltarlo, lo scalpiccio frenetico dei guerrieri in mezzo alle strade polverose dava al tutto un senso di melliflua omogeneità, come una sorta di suono accordato con le note dell’odio e dei sentimenti più primordiali. Il rumore della battaglia era il grido furioso dell’era delle conquiste e del desiderio di potere, era come il tumultuoso ventre di un dinosauro, era come riscoprire le origini del mondo, ma era, tuttavia, il simbolo imperioso della decadenza della modernità.
Alle urla di sofferenza però non ci si era abituati, nonostante tutto, e non ci si era abituati all’odore marcio del sangue rappreso e dei corpi martoriati dopo che il tornado della battaglia aveva finito di scatenarsi.
E quel maledetto frastuono era uguale dappertutto, anche nel piccolo paese umano di Earatus dove da poche ore era iniziata la furiosa invasione dell’esercito dei Jithyanki. Come sempre, i Jithyanki attaccarono con il favore delle tenebre. La loro tattica era sempre la medesima: colpire il paese durante la notte e abbandonarlo all’alba, raso al suolo e saccheggiato. Era raro che un attacco dell’esercito dei Jithyanki si potesse protrarre oltre il tempo prestabilito. Furono pochi infatti i paesi che riuscirono a resistere per oltre una notte alla furia di quegli eserciti. Il paese elfico di Tilitam, ai piedi del Monte luna, era uno di questi, così come la città marittima di Ghisidis che resistette valorosamente per oltre due giorni, prima di essere completamente distrutta dalla ferocia dei Jithyanki. Ci fu solo un’eccezione che si elevò al di sopra del lungo elenco di stragi compiute durante quegli anni sanguinosi, ovvero la città di Metasiste, roccaforte del sud che più di una volta respinse le incursioni dei Jithyanki, conseguendo numerose vittorie e scongiurando più di una volta il pericolo dell’invasione.
Il paese di Earatus però era ben lungi dall’essere considerato una roccaforte inespugnabile. Si trattava prevalentemente di una cittadina di commercianti, dove i guerrieri non abbondavano, e ne fu prova la facilità con cui l’esercito dei Jithyanki vi penetrò all’interno, cosicché dopo neanche tre ore di combattimenti e massacri la resa era ormai inevitabile. Il vento di Freminto delle lande del nord, con il suo soffio gelido, propagava le fiamme appiccate alle abitazioni come un morbo implacabile. Si sollevava alto il fumo, nascevano dal nulla vortici di fuliggine, il cielo dava l’idea di essere sempre stato rosso.
Il panico si era impadronito di Earatus e di quando in quando si vedevano giovani donne e bambini fuggire terrorizzati e senza meta. Qualcuno riusciva ad uscire dalla città e magari a rifugiarsi in qualche vicino villaggio, ma spesso la corsa dei fuggitivi si concludeva a causa di un violento fendente nella schiena. Se c’era una cosa che mancava ai Jithyanki, questa era la pietà.
Il giovane Artsis era immobile, al buio della cattedrale di Earatus dove si era rifugiato pochi minuti prima dopo un lungo inseguimento, seduto con la schiena poggiata all’estremità di una lunga panca di legno. Le sue esili braccia stringevano le gambe rannicchiate tirandosi l’una con l’altra nervosamente. Il suo respiro e i suoi singhiozzi rabbiosi rimbombavano all’interno del grande edificio e a confronto il frastuono della battaglia, lì fuori, sembrava quasi il dolce brusio di un drago addormentato. Ripensò al massacro di sua sorella avvenuto pochi minuti prima, davanti ai suoi occhi. Ripensò al ferro della spada che diveniva rosso mentre le trapassava il cuore. Ripensò al suo grido che si affievoliva in un debole respiro mentre la lama le penetrava il petto. Ripensò alla sua condizione di svantaggio che lo costrinse a battere in ritirata davanti agli assalitori. Ma tuttavia, non smise di considerarsi un vigliacco.
L’unica cosa che poté fare, in quel momento, fu quella di giurare a se stesso di vendicare la morte di sua sorella e colorare la sua spada con tutto il sangue di Jithyanki possibile. Fino alla sua morte.
La sua vista, intanto, iniziava ad abituarsi all’oscurità della cattedrale. Cessarono anche le sue lacrime.
Il brusio della battaglia sembrò di nuovo aumentare, rifarsi ruggito di drago famelico e furioso, dove le urla della sua gente si mescolava con il ferro e la polvere e l’odio.
Doveva fuggire da lì, o prima o poi l’avrebbero trovato.
Ma il portone della chiesa rimbombò non appena Artsis si fu messo in piedi. Colpi violenti di mazze, uno dopo l’altro, fracassavano a poco a poco il legno e creavano un’eco spaventosa. La panca che il giovane aveva usato per sigillare l’entrata avrebbe resistito ancora per poco. Artsis corse in fondo alla chiesa e si nascose tra una parete e la gigantesca statua di un monaco vagabondo, confidando nelle tenebre e nella buona sorte.
Infine i Jithyanki buttarono giù il portone. Dalla sua posizione Artsis poteva scorgere tre sagome nere e gorgoglianti, alle loro spalle la luce cremisi delle case incendiate che li faceva sembrare esseri venuti direttamente dall’aldilà. Rimasero lì, immobili sulla soglia, tre paia di occhi completamente gialli che scrutavano con meticolosa lentezza l’interno della chiesa. Rimasero lì. Rimasero immobili per così tanto tempo che quasi sembravano delle statue, non fosse stato per il movimento delle loro teste - simile a quello del faro di un promontorio – e per il loro respiro costantemente affannato che dava l’impressione stessero vomitando aria.
Poi uno scoppio improvviso all’esterno della chiesa attirò la loro attenzione e li fece correre via.
Ritornò il fragore della battaglia, che nel frattempo si era sopito, e Artsis decise di uscire dall’edificio, prima che altri Jithyanki tornassero.
...continua...
Il rumore della battaglia era come la furiosa risacca notturna dell’oceano in tempesta, il fragore dei metalli che cozzavano fra loro assumeva uno strano e glaciale ritmo dopo un po’ che si restava ad ascoltarlo, lo scalpiccio frenetico dei guerrieri in mezzo alle strade polverose dava al tutto un senso di melliflua omogeneità, come una sorta di suono accordato con le note dell’odio e dei sentimenti più primordiali. Il rumore della battaglia era il grido furioso dell’era delle conquiste e del desiderio di potere, era come il tumultuoso ventre di un dinosauro, era come riscoprire le origini del mondo, ma era, tuttavia, il simbolo imperioso della decadenza della modernità.
Alle urla di sofferenza però non ci si era abituati, nonostante tutto, e non ci si era abituati all’odore marcio del sangue rappreso e dei corpi martoriati dopo che il tornado della battaglia aveva finito di scatenarsi.
E quel maledetto frastuono era uguale dappertutto, anche nel piccolo paese umano di Earatus dove da poche ore era iniziata la furiosa invasione dell’esercito dei Jithyanki. Come sempre, i Jithyanki attaccarono con il favore delle tenebre. La loro tattica era sempre la medesima: colpire il paese durante la notte e abbandonarlo all’alba, raso al suolo e saccheggiato. Era raro che un attacco dell’esercito dei Jithyanki si potesse protrarre oltre il tempo prestabilito. Furono pochi infatti i paesi che riuscirono a resistere per oltre una notte alla furia di quegli eserciti. Il paese elfico di Tilitam, ai piedi del Monte luna, era uno di questi, così come la città marittima di Ghisidis che resistette valorosamente per oltre due giorni, prima di essere completamente distrutta dalla ferocia dei Jithyanki. Ci fu solo un’eccezione che si elevò al di sopra del lungo elenco di stragi compiute durante quegli anni sanguinosi, ovvero la città di Metasiste, roccaforte del sud che più di una volta respinse le incursioni dei Jithyanki, conseguendo numerose vittorie e scongiurando più di una volta il pericolo dell’invasione.
Il paese di Earatus però era ben lungi dall’essere considerato una roccaforte inespugnabile. Si trattava prevalentemente di una cittadina di commercianti, dove i guerrieri non abbondavano, e ne fu prova la facilità con cui l’esercito dei Jithyanki vi penetrò all’interno, cosicché dopo neanche tre ore di combattimenti e massacri la resa era ormai inevitabile. Il vento di Freminto delle lande del nord, con il suo soffio gelido, propagava le fiamme appiccate alle abitazioni come un morbo implacabile. Si sollevava alto il fumo, nascevano dal nulla vortici di fuliggine, il cielo dava l’idea di essere sempre stato rosso.
Il panico si era impadronito di Earatus e di quando in quando si vedevano giovani donne e bambini fuggire terrorizzati e senza meta. Qualcuno riusciva ad uscire dalla città e magari a rifugiarsi in qualche vicino villaggio, ma spesso la corsa dei fuggitivi si concludeva a causa di un violento fendente nella schiena. Se c’era una cosa che mancava ai Jithyanki, questa era la pietà.
Il giovane Artsis era immobile, al buio della cattedrale di Earatus dove si era rifugiato pochi minuti prima dopo un lungo inseguimento, seduto con la schiena poggiata all’estremità di una lunga panca di legno. Le sue esili braccia stringevano le gambe rannicchiate tirandosi l’una con l’altra nervosamente. Il suo respiro e i suoi singhiozzi rabbiosi rimbombavano all’interno del grande edificio e a confronto il frastuono della battaglia, lì fuori, sembrava quasi il dolce brusio di un drago addormentato. Ripensò al massacro di sua sorella avvenuto pochi minuti prima, davanti ai suoi occhi. Ripensò al ferro della spada che diveniva rosso mentre le trapassava il cuore. Ripensò al suo grido che si affievoliva in un debole respiro mentre la lama le penetrava il petto. Ripensò alla sua condizione di svantaggio che lo costrinse a battere in ritirata davanti agli assalitori. Ma tuttavia, non smise di considerarsi un vigliacco.
L’unica cosa che poté fare, in quel momento, fu quella di giurare a se stesso di vendicare la morte di sua sorella e colorare la sua spada con tutto il sangue di Jithyanki possibile. Fino alla sua morte.
La sua vista, intanto, iniziava ad abituarsi all’oscurità della cattedrale. Cessarono anche le sue lacrime.
Il brusio della battaglia sembrò di nuovo aumentare, rifarsi ruggito di drago famelico e furioso, dove le urla della sua gente si mescolava con il ferro e la polvere e l’odio.
Doveva fuggire da lì, o prima o poi l’avrebbero trovato.
Ma il portone della chiesa rimbombò non appena Artsis si fu messo in piedi. Colpi violenti di mazze, uno dopo l’altro, fracassavano a poco a poco il legno e creavano un’eco spaventosa. La panca che il giovane aveva usato per sigillare l’entrata avrebbe resistito ancora per poco. Artsis corse in fondo alla chiesa e si nascose tra una parete e la gigantesca statua di un monaco vagabondo, confidando nelle tenebre e nella buona sorte.
Infine i Jithyanki buttarono giù il portone. Dalla sua posizione Artsis poteva scorgere tre sagome nere e gorgoglianti, alle loro spalle la luce cremisi delle case incendiate che li faceva sembrare esseri venuti direttamente dall’aldilà. Rimasero lì, immobili sulla soglia, tre paia di occhi completamente gialli che scrutavano con meticolosa lentezza l’interno della chiesa. Rimasero lì. Rimasero immobili per così tanto tempo che quasi sembravano delle statue, non fosse stato per il movimento delle loro teste - simile a quello del faro di un promontorio – e per il loro respiro costantemente affannato che dava l’impressione stessero vomitando aria.
Poi uno scoppio improvviso all’esterno della chiesa attirò la loro attenzione e li fece correre via.
Ritornò il fragore della battaglia, che nel frattempo si era sopito, e Artsis decise di uscire dall’edificio, prima che altri Jithyanki tornassero.
...continua...
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Re: Naufraghi 2.0
ed ecco la seconda (e ultima) parte:
Fuori la città di Earatus era completamente devastata. Corpi inermi ovunque, case dilaniate, odore di sangue e cenere. Verso sud si elevava un’imponente colonna di fumo e da lì provenivano anche le urla furiose: ultimi rimasugli di una battaglia ormai persa.
Alla vista di quello spettacolo una lacrima rabbiosa rigò il volto di Artsis, ma fu subito scacciata dal giovane con un brusco gesto della mano. La sensazione di impotenza lo pervadeva, ma era grande anche il sentimento di vendetta. Nuovamente assaporò il giorno in cui si sarebbe nutrito del sangue di quei mostri maledetti.
Ma per ora doveva fuggire da Earatus e andare verso il bosco, che si trovava a non più di cinquecento metri a est della città, e restare nascosto fino a quando l’esercito di mostri non se ne fosse andato. Non si rese subito conto però che a duecento metri da lui, dalla via che portava in direzione sud, stava arrivando un Jithyanki. La creatura non si era accorta di lui a giudicare dalla sua camminata lenta. Artsis però rimase immobile, travolto da un’ondata di panico, mentre il mostro, ancora ignaro della presenza del ragazzo, si avvicinava sempre di più. Quando vide che i suoi occhi gialli puntavano nella sua direzione capì che ormai si era accorto di lui, e ulteriore conferma fu il terribile rumore gutturale che emise lo Jithyanki. Il suo passo accelerò, per poi divenire una corsa furiosa. Dai lati della strada spuntarono, come dal nulla, altri due Jithyanki. Artsis si sentì nuovamente un vigliacco, ma l’unica cosa che poteva fare in quell’attimo era fuggire un’altra volta, o non ci sarebbe stata nessuna speranza per lui.
Corse con tutta la forza che aveva in corpo in direzione del bosco e l’incedere feroce dei tre mostri gli diede l’impressione di avere alle costole un gigantesco animale a sei zampe; la distanza fra lui e gli inseguitori si andava man mano ad assottigliarsi e non aveva ancora percorso metà della strada verso il bosco; ormai poteva sentire i loro gorgoglii come se li avesse avuti accanto a sé e non c’era speranza che quegli esseri avrebbero rallentato. Le gambe stavano per cedere, i Jithyanki erano a pochi passi da lui, a pochi metri. Udì chiaramente il rumore di una lama che usciva dal suo fodero, ormai per lui era finita, e smise quasi di correre. Chiuse gli occhi e aspettò soltanto l’arrivo del fendente.
Ma il colpo non arrivò. Sentì uno scoppio subito dietro di lui, succeduto da due scie luminose e velocissime che correvano verso il bosco. Si voltò, e vide che dei suoi inseguitori erano rimasti solo i corpi straziati.
Rivolgendo il suo sguardo in direzione del bosco, Artsis vide le code saettanti delle due scie luminose e decise di inseguirle per capire di cosa si trattasse, ma la velocità di quelle luci era troppo alta e molto presto le vide addentrarsi nelle profondità della boscaglia, per poi sparire, inghiottite da una nuova oscurità. Ciò che rimase di quelle due scie era il rumore di passi veloci e leggeri, e il soffio del loro spostamento d’aria, cosicché Artsis si fece un’idea dei loro movimenti e gli parve di capire che anche quello era un inseguimento. Un inseguimento fra forze molto maggiori dei mostri che avevano distrutto Earatus.
A un tratto però il bosco tacque. Nessun passo, nessuna folata, nessun respiro. Si poteva udire magari il dolce posarsi delle foglie scosse dal vento, ma solo per pochi attimi, perché poi fu davvero totale silenzio.
Poi un’altissima colonna di luce in direzione del centro del bosco, così alta da arrivare fino a bucare il cielo e ancora più in alto. Artsis corse in direzione della fonte di luce e quando vi si trovò vicino ciò che gli si presentò davanti era una sfera di luce gialla, e al suo interno due uomini. Uno aveva la pelle giallastra, un vestito logoro e le orecchie appuntite. L’altro uomo era più anziano e lo fronteggiava, con il suo mantello nero e il braccio disteso verso il suo nemico e la mano che gli toccava la testa. L’uomo con il mantello nero pronunciò cinque parole in una lingua sconosciuta e dopo una pausa le ripeté, poi fece un’altra pausa e le disse ancora, poi di nuovo, e di nuovo ancora. Ogni volta che le pronunciava la sua voce si sollevava e allo stesso tempo cambiava tonalità, divenendo rauca e demoniaca, e la sua mano si stringeva sempre più forte nella fronte del suo oppositore.
Poi il bagliore divenne accecante e ci fu come un’esplosione. Artsis fu investito dall’ondata di luce e perse conoscenza. Quando si risvegliò era ormai giorno e si accorse presto che non c’era più nessuno, se non lui.
Avrebbe potuto pensare che si era trattato soltanto di un brutto sogno, in cuor suo l’avrebbe voluto, avrebbe desiderato con tutto il cuore di non aver vissuto quella terribile notte. Per un attimo quasi se ne convinse, ma la vista del piccolo cratere che quei due uomini avevano provocato lo riportò saldamente alla realtà. Dal centro della grossa buca luccicava qualcosa, Artsis si calò giù e vi trovò un medaglione d’argento, con sopra disegnati quattro simboli che non aveva mai visto.
Allora se lo mise al collo, con la ferma convinzione che un giorno avrebbe rincontrato quei due uomini, in qualche modo responsabili della distruzione di Earatus e della morte di sua sorella. E fu quello l’esatto attimo in cui decise che quello sarebbe stato il giorno in cui avrebbe voltato per sempre le spalle alla sua città natale, per iniziare a errare per il mondo conosciuto.Â
Â
Fuori la città di Earatus era completamente devastata. Corpi inermi ovunque, case dilaniate, odore di sangue e cenere. Verso sud si elevava un’imponente colonna di fumo e da lì provenivano anche le urla furiose: ultimi rimasugli di una battaglia ormai persa.
Alla vista di quello spettacolo una lacrima rabbiosa rigò il volto di Artsis, ma fu subito scacciata dal giovane con un brusco gesto della mano. La sensazione di impotenza lo pervadeva, ma era grande anche il sentimento di vendetta. Nuovamente assaporò il giorno in cui si sarebbe nutrito del sangue di quei mostri maledetti.
Ma per ora doveva fuggire da Earatus e andare verso il bosco, che si trovava a non più di cinquecento metri a est della città, e restare nascosto fino a quando l’esercito di mostri non se ne fosse andato. Non si rese subito conto però che a duecento metri da lui, dalla via che portava in direzione sud, stava arrivando un Jithyanki. La creatura non si era accorta di lui a giudicare dalla sua camminata lenta. Artsis però rimase immobile, travolto da un’ondata di panico, mentre il mostro, ancora ignaro della presenza del ragazzo, si avvicinava sempre di più. Quando vide che i suoi occhi gialli puntavano nella sua direzione capì che ormai si era accorto di lui, e ulteriore conferma fu il terribile rumore gutturale che emise lo Jithyanki. Il suo passo accelerò, per poi divenire una corsa furiosa. Dai lati della strada spuntarono, come dal nulla, altri due Jithyanki. Artsis si sentì nuovamente un vigliacco, ma l’unica cosa che poteva fare in quell’attimo era fuggire un’altra volta, o non ci sarebbe stata nessuna speranza per lui.
Corse con tutta la forza che aveva in corpo in direzione del bosco e l’incedere feroce dei tre mostri gli diede l’impressione di avere alle costole un gigantesco animale a sei zampe; la distanza fra lui e gli inseguitori si andava man mano ad assottigliarsi e non aveva ancora percorso metà della strada verso il bosco; ormai poteva sentire i loro gorgoglii come se li avesse avuti accanto a sé e non c’era speranza che quegli esseri avrebbero rallentato. Le gambe stavano per cedere, i Jithyanki erano a pochi passi da lui, a pochi metri. Udì chiaramente il rumore di una lama che usciva dal suo fodero, ormai per lui era finita, e smise quasi di correre. Chiuse gli occhi e aspettò soltanto l’arrivo del fendente.
Ma il colpo non arrivò. Sentì uno scoppio subito dietro di lui, succeduto da due scie luminose e velocissime che correvano verso il bosco. Si voltò, e vide che dei suoi inseguitori erano rimasti solo i corpi straziati.
Rivolgendo il suo sguardo in direzione del bosco, Artsis vide le code saettanti delle due scie luminose e decise di inseguirle per capire di cosa si trattasse, ma la velocità di quelle luci era troppo alta e molto presto le vide addentrarsi nelle profondità della boscaglia, per poi sparire, inghiottite da una nuova oscurità. Ciò che rimase di quelle due scie era il rumore di passi veloci e leggeri, e il soffio del loro spostamento d’aria, cosicché Artsis si fece un’idea dei loro movimenti e gli parve di capire che anche quello era un inseguimento. Un inseguimento fra forze molto maggiori dei mostri che avevano distrutto Earatus.
A un tratto però il bosco tacque. Nessun passo, nessuna folata, nessun respiro. Si poteva udire magari il dolce posarsi delle foglie scosse dal vento, ma solo per pochi attimi, perché poi fu davvero totale silenzio.
Poi un’altissima colonna di luce in direzione del centro del bosco, così alta da arrivare fino a bucare il cielo e ancora più in alto. Artsis corse in direzione della fonte di luce e quando vi si trovò vicino ciò che gli si presentò davanti era una sfera di luce gialla, e al suo interno due uomini. Uno aveva la pelle giallastra, un vestito logoro e le orecchie appuntite. L’altro uomo era più anziano e lo fronteggiava, con il suo mantello nero e il braccio disteso verso il suo nemico e la mano che gli toccava la testa. L’uomo con il mantello nero pronunciò cinque parole in una lingua sconosciuta e dopo una pausa le ripeté, poi fece un’altra pausa e le disse ancora, poi di nuovo, e di nuovo ancora. Ogni volta che le pronunciava la sua voce si sollevava e allo stesso tempo cambiava tonalità, divenendo rauca e demoniaca, e la sua mano si stringeva sempre più forte nella fronte del suo oppositore.
Poi il bagliore divenne accecante e ci fu come un’esplosione. Artsis fu investito dall’ondata di luce e perse conoscenza. Quando si risvegliò era ormai giorno e si accorse presto che non c’era più nessuno, se non lui.
Avrebbe potuto pensare che si era trattato soltanto di un brutto sogno, in cuor suo l’avrebbe voluto, avrebbe desiderato con tutto il cuore di non aver vissuto quella terribile notte. Per un attimo quasi se ne convinse, ma la vista del piccolo cratere che quei due uomini avevano provocato lo riportò saldamente alla realtà. Dal centro della grossa buca luccicava qualcosa, Artsis si calò giù e vi trovò un medaglione d’argento, con sopra disegnati quattro simboli che non aveva mai visto.
Allora se lo mise al collo, con la ferma convinzione che un giorno avrebbe rincontrato quei due uomini, in qualche modo responsabili della distruzione di Earatus e della morte di sua sorella. E fu quello l’esatto attimo in cui decise che quello sarebbe stato il giorno in cui avrebbe voltato per sempre le spalle alla sua città natale, per iniziare a errare per il mondo conosciuto.Â
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Re: Naufraghi 2.0
Epilogo (mi son preso del tempo, eh, ma tra interventi nel topic della politica, cazzi e mazzi -leggasi formattazione- ho avuto un po' da fare nei giorni scorsiÂ
)
Il giorno della partita nel quartiere sembrava quasi che ci fosse una festività religiosa: molti negozi eran rimasti chiusi e persino le azioni criminose ebbero un calo drastico; nell'aria si poteva percepire l'eccitazione per un evento fuori dal normale: da una parte c'erano gli eroi locali, i tre moschettieri; dall'altra c'era KC Smith, che a 17 anni aveva già la struttura di un adulto -messo molto bene fisicamente- e i compagni reclutati per l'occasione dal boss. Uno dei due aveva già ricevuto diverse offerte di borse di studio dai migliori college della zona, l'altro invece era più noto per la durezza del suo gioco che per la classe cristallina, non sarebbe stato del tutto sbagliato definirlo un gangster che giocava a basket. Per offrire uno spettacolo migliore si era deciso di giocare in 5 vs 5, quindi le squadre vennero completate con alcuni dei baller che erano venuti al campo per assistere alla partita. In quello che fu una sorta di minidraft venne concesso a KC di scegliere per primo, come fosse una compensazione per il fatto di dover giocare sul campo nemico, o almeno fu così che pose la questione T-Flag e nessuno trovò necessario esprimere perplessità in merito. Ovviamente tutto rimaneva comunque incentrato sul confronto tra KC Smith contro i tre moschettieri. E -volendo- contro Big Joe Collymoore, che per struttura fisica era quello con cui avrebbe dovuto scontrarsi di più. A far bella mostra di sé c'era -sul lato destro del campo, quello vicino alla strada- il cronometro che i ragazzi di T-Flag avevano sottratto all'università, in modo da far le cose per bene e garantire un conteggio del tempo imparziale, forse perché il boss ci teneva a far credere che le cose sarebbero state regolari. La durata dell'incontro era stata decisa in due tempi da 30 minuti con una breve pausa di 5 minuti tra un tempo e l'altro.
Quando mancava 1 minuto alla fine della partita il punteggio era in parità; era stata una sfida molto intensa, con momenti di alta spettacolarità, ma anche di estrema tensione; più volte si era sfiorata la rissa e se si fosse trattato di una partita regolare, con degli arbitri, sarebbe certamente stata sospesa. Joe aveva un sopracciglio rotto, conseguenza di una gomitata subita durante una lotta a rimbalzo, ma si trovò a trattenere il fiato quando vide LeTissier che -dopo esser stato superato per l'ennesima volta- rifilò una micidiale ginocchiata sulla coscia a KC; il predestinato si era subito accasciato con un gemito neanche tanto sommesso. Joe temette che T-Flag avrebbe fatto invasione di campo, ma non successe e nel giro di qualche minuto fu lo stesso KC a stemperare gli animi restituendo la palla a LeTissier, per via di quella regola non scritta che vige a NY: non bisogna mai chiamare fallo.
Dopo una serie -per certi versi incomprensibile- di errori da entrambe le parti si era arrivati quasi allo scadere del tempo e tutto faceva supporre che si sarebbe andati all'over time; ma è nei momenti di maggior tensione che accade l'imponderabile e quello che successe a dieci secondi e sette decimi dalla fine della partita non poteva esser prevedibile per nessuno: i moschettieri gestivano palla in attacco quando LeTissier -che aveva ricevuto palla da Collymoore- appoggiò male un piede -complice anche la spinta maliziosa di un avversario- e si trovò fuori equilibrio, KC si trovava proprio davanti a lui e fu lesto a sottrargli la palla, cogliendo anche fuori posizione la difesa dei moschettieri. I metri che separavano KC Smith dal canestro della vittoria furono attraversati ad una velocità e in un silenzio irreali; tutti quanti aspettavano l'epilogo clamoroso, aspettavano di vedere l'ennesima -e decisiva- affondata di quello straordinario atleta. Non c'erano discussioni sul fatto che anche se non avesse vinto quella partita KC Smith aveva comunque dimostrato di essere un giocatore di livello superiore alla media. Fu però una serie di decisioni insolite a determinare la successione degli eventi: LeTissier dopo aver perso palla era rimasto -impietrito- fuori dalla linea del tiro da tre, in attacco, mentre gli altri corsero svogliatamente dietro a KC senza dar tanto l'impressione di volerlo davvero raggiungere e senza neanche curarsi dei loro avversari diretti che correvano in attacco per inerzia, certi del fatto che KC non avrebbe mai nemmeno preso in considerazione l'idea di passare la palla a qualcuno; a sparigliare le carte fu Big Joe che si mise a correre come un centometrista verso il canestro, senza curarsi di KC. Fu una corsa quasi parallela, KC -dal canto suo- aveva preso una decisione con cui avrebbe dovuto fare i conti per tutta la vita: invece di andare a schiacciare di prepotenza, come era possibile e doveroso, aveva deciso di andare a segnare in lay up, per umiliare gli avversari. Non sto neanche a schiacciare, vi batto segnando in sotto mano, doveva aver pensato. Quando si alzò per andare a depositare la palla nel cesto ecco che accanto a lui -come materializzatosi all'improvviso- arrivò Big Joe Collymoore; i due erano ormai sulla stessa linea, Big Joe saltò una frazione di secondo più tardi rispetto a KC. Sarebbe stato troppo tardi per intervenire su una schiacciata, ma non per intervenire su un sotto mano. Difficilmente si potrebbe stabilire quante frazioni di secondo passarono dopo che la palla si staccò dalla mano di KC, la cosa sembrò simultanea e clamorosa: Joe inchiodò la palla al tabellone con entrambe le mani per una delle stoppate più umilianti che un giocatore possa mai subire. Il tempo sembrò fermarsi e scolpire quell'immagine nell'aria; KC aveva un'espressione sgomenta mentre Joe aveva gli occhi che ridevano, mentre pareva poter tenere la palla appoggiata al tabellone per l'eternità. Nella fase di discesa -prima di toccar terra con entrambi i piedi- effettuò una torsione e lasciò partire un passaggio a una mano -in stile football- per LeTissier che era rimasto da solo; Jason -incredulo ma reattivo- dopo aver ricevuto il passaggio non fece neanche finta di voler segnare in lay up e andò a schiacciare, urlando e rimanendo appeso al ferro per un tempo impossibile da quantificare. Il tempo reale era scaduto mentre lui urlava e aveva sancito la fine di una partita che i moschettieri avrebbero dovuto perdere e che invece avevano vinto..

Il giorno della partita nel quartiere sembrava quasi che ci fosse una festività religiosa: molti negozi eran rimasti chiusi e persino le azioni criminose ebbero un calo drastico; nell'aria si poteva percepire l'eccitazione per un evento fuori dal normale: da una parte c'erano gli eroi locali, i tre moschettieri; dall'altra c'era KC Smith, che a 17 anni aveva già la struttura di un adulto -messo molto bene fisicamente- e i compagni reclutati per l'occasione dal boss. Uno dei due aveva già ricevuto diverse offerte di borse di studio dai migliori college della zona, l'altro invece era più noto per la durezza del suo gioco che per la classe cristallina, non sarebbe stato del tutto sbagliato definirlo un gangster che giocava a basket. Per offrire uno spettacolo migliore si era deciso di giocare in 5 vs 5, quindi le squadre vennero completate con alcuni dei baller che erano venuti al campo per assistere alla partita. In quello che fu una sorta di minidraft venne concesso a KC di scegliere per primo, come fosse una compensazione per il fatto di dover giocare sul campo nemico, o almeno fu così che pose la questione T-Flag e nessuno trovò necessario esprimere perplessità in merito. Ovviamente tutto rimaneva comunque incentrato sul confronto tra KC Smith contro i tre moschettieri. E -volendo- contro Big Joe Collymoore, che per struttura fisica era quello con cui avrebbe dovuto scontrarsi di più. A far bella mostra di sé c'era -sul lato destro del campo, quello vicino alla strada- il cronometro che i ragazzi di T-Flag avevano sottratto all'università, in modo da far le cose per bene e garantire un conteggio del tempo imparziale, forse perché il boss ci teneva a far credere che le cose sarebbero state regolari. La durata dell'incontro era stata decisa in due tempi da 30 minuti con una breve pausa di 5 minuti tra un tempo e l'altro.
Quando mancava 1 minuto alla fine della partita il punteggio era in parità; era stata una sfida molto intensa, con momenti di alta spettacolarità, ma anche di estrema tensione; più volte si era sfiorata la rissa e se si fosse trattato di una partita regolare, con degli arbitri, sarebbe certamente stata sospesa. Joe aveva un sopracciglio rotto, conseguenza di una gomitata subita durante una lotta a rimbalzo, ma si trovò a trattenere il fiato quando vide LeTissier che -dopo esser stato superato per l'ennesima volta- rifilò una micidiale ginocchiata sulla coscia a KC; il predestinato si era subito accasciato con un gemito neanche tanto sommesso. Joe temette che T-Flag avrebbe fatto invasione di campo, ma non successe e nel giro di qualche minuto fu lo stesso KC a stemperare gli animi restituendo la palla a LeTissier, per via di quella regola non scritta che vige a NY: non bisogna mai chiamare fallo.
Dopo una serie -per certi versi incomprensibile- di errori da entrambe le parti si era arrivati quasi allo scadere del tempo e tutto faceva supporre che si sarebbe andati all'over time; ma è nei momenti di maggior tensione che accade l'imponderabile e quello che successe a dieci secondi e sette decimi dalla fine della partita non poteva esser prevedibile per nessuno: i moschettieri gestivano palla in attacco quando LeTissier -che aveva ricevuto palla da Collymoore- appoggiò male un piede -complice anche la spinta maliziosa di un avversario- e si trovò fuori equilibrio, KC si trovava proprio davanti a lui e fu lesto a sottrargli la palla, cogliendo anche fuori posizione la difesa dei moschettieri. I metri che separavano KC Smith dal canestro della vittoria furono attraversati ad una velocità e in un silenzio irreali; tutti quanti aspettavano l'epilogo clamoroso, aspettavano di vedere l'ennesima -e decisiva- affondata di quello straordinario atleta. Non c'erano discussioni sul fatto che anche se non avesse vinto quella partita KC Smith aveva comunque dimostrato di essere un giocatore di livello superiore alla media. Fu però una serie di decisioni insolite a determinare la successione degli eventi: LeTissier dopo aver perso palla era rimasto -impietrito- fuori dalla linea del tiro da tre, in attacco, mentre gli altri corsero svogliatamente dietro a KC senza dar tanto l'impressione di volerlo davvero raggiungere e senza neanche curarsi dei loro avversari diretti che correvano in attacco per inerzia, certi del fatto che KC non avrebbe mai nemmeno preso in considerazione l'idea di passare la palla a qualcuno; a sparigliare le carte fu Big Joe che si mise a correre come un centometrista verso il canestro, senza curarsi di KC. Fu una corsa quasi parallela, KC -dal canto suo- aveva preso una decisione con cui avrebbe dovuto fare i conti per tutta la vita: invece di andare a schiacciare di prepotenza, come era possibile e doveroso, aveva deciso di andare a segnare in lay up, per umiliare gli avversari. Non sto neanche a schiacciare, vi batto segnando in sotto mano, doveva aver pensato. Quando si alzò per andare a depositare la palla nel cesto ecco che accanto a lui -come materializzatosi all'improvviso- arrivò Big Joe Collymoore; i due erano ormai sulla stessa linea, Big Joe saltò una frazione di secondo più tardi rispetto a KC. Sarebbe stato troppo tardi per intervenire su una schiacciata, ma non per intervenire su un sotto mano. Difficilmente si potrebbe stabilire quante frazioni di secondo passarono dopo che la palla si staccò dalla mano di KC, la cosa sembrò simultanea e clamorosa: Joe inchiodò la palla al tabellone con entrambe le mani per una delle stoppate più umilianti che un giocatore possa mai subire. Il tempo sembrò fermarsi e scolpire quell'immagine nell'aria; KC aveva un'espressione sgomenta mentre Joe aveva gli occhi che ridevano, mentre pareva poter tenere la palla appoggiata al tabellone per l'eternità. Nella fase di discesa -prima di toccar terra con entrambi i piedi- effettuò una torsione e lasciò partire un passaggio a una mano -in stile football- per LeTissier che era rimasto da solo; Jason -incredulo ma reattivo- dopo aver ricevuto il passaggio non fece neanche finta di voler segnare in lay up e andò a schiacciare, urlando e rimanendo appeso al ferro per un tempo impossibile da quantificare. Il tempo reale era scaduto mentre lui urlava e aveva sancito la fine di una partita che i moschettieri avrebbero dovuto perdere e che invece avevano vinto..
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Re: Naufraghi 2.0
Toni Monroe ha scritto: EpilogoÂ
in questi giorni però mi chiedevo: che fine fanno poi i tre moschettieri

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Re: Naufraghi 2.0
Robyus ha scritto: in questi giorni però mi chiedevo: che fine fanno poi i tre moschettieri?

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Re: Naufraghi 2.0
Toni Monroe ha scritto:sono in arretrato, lo so. Arriva, il seguito, arriva. Abbi pazienza. Tanto qui ci leggiamo tra noi :lol2:
ah ma allora quello non era il finale! Meglio meglio, mi era rimasto un che di amarognolo in bocca :lol2:.
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Re: Naufraghi 2.0
Toni Monroe ha scritto:sono in arretrato, lo so. Arriva, il seguito, arriva. Abbi pazienza. Tanto qui ci leggiamo tra noi :lol2:
Bhè, notoriamente dopo i "tre moschettieri" arrivò "vent'anni dopo". Quindi immagino che la prossima sfida sarà a carte! A meno che non siano disposti a sfidare il ridicolo e la tenuta dei legamenti come tal Doc G...
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Re: Naufraghi 2.0
doc G ha scritto: Bhè, notoriamente dopo i "tre moschettieri" arrivò "vent'anni dopo". Quindi immagino che la prossima sfida sarà a carte! A meno che non siano disposti a sfidare il ridicolo e la tenuta dei legamenti come tal Doc G...
Ne sai abbastanza da fornire indicazioni a scrittori improvvisati, dai, è già qualcosa.Â

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Re: Naufraghi 2.0
Toni Monroe ha scritto: Ne sai abbastanza da fornire indicazioni a scrittori improvvisati, dai, è già qualcosa.Â
Si, io noto scrittore affermato, dall'alto delle mie numerose pubblicazioni e degli innumerevoli premi vinti a volte mi concedo anche al volgo!
:lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2: :lol2:
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Re: Naufraghi 2.0
AUGURI Naufraghi!!! 
Coming soon
(...)Â L'Eroe intanto si stava appassionando al resoconto che Speaker stava tenendo ai ragazzi sulla partita del secolo tra i moschettieri e la squadra di KC Smith, e di come a quest'ultimo fosse -di fatto- costata la vita la decisione di andare in sottomano invece di schiacciare. Speaker si dilungava in così tanti particolari che pareva quasi di vedere la partita attraverso le sue parole; ci sono persone che hanno questo tipo di dono: di riuscire ad ammaliare e a portarti per mano dove vogliono, con le loro parole, e Speaker era certamente una di queste persone. Attraverso le sue parole i ragazzi poterono vedere Big Joe che veniva colpito con una gomitata da Kenny Edmonds, il compagno di squadra di KC Smith che aveva più la fama da Gangster che del giocatore, e anche il parapiglia che ne era seguito pareva lo avesse disegnato -come una coreografia- lo stesso Speaker: Joe che si porta la mano al ciglio e se la ritrova subito piena di sangue, la reazione istintiva che lo fa scagliare contro Kenny, che evita il pugno di Joe ma non la testata di Daniel (...)


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(...)Â L'Eroe intanto si stava appassionando al resoconto che Speaker stava tenendo ai ragazzi sulla partita del secolo tra i moschettieri e la squadra di KC Smith, e di come a quest'ultimo fosse -di fatto- costata la vita la decisione di andare in sottomano invece di schiacciare. Speaker si dilungava in così tanti particolari che pareva quasi di vedere la partita attraverso le sue parole; ci sono persone che hanno questo tipo di dono: di riuscire ad ammaliare e a portarti per mano dove vogliono, con le loro parole, e Speaker era certamente una di queste persone. Attraverso le sue parole i ragazzi poterono vedere Big Joe che veniva colpito con una gomitata da Kenny Edmonds, il compagno di squadra di KC Smith che aveva più la fama da Gangster che del giocatore, e anche il parapiglia che ne era seguito pareva lo avesse disegnato -come una coreografia- lo stesso Speaker: Joe che si porta la mano al ciglio e se la ritrova subito piena di sangue, la reazione istintiva che lo fa scagliare contro Kenny, che evita il pugno di Joe ma non la testata di Daniel (...)

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Re: Naufraghi 2.0
Un esperimento che nasce da un mio vecchio problema col layout del forum in questo specifico topic, che ho sempre trovato troppo largo; ovviamente non si può pensare di adattare il layout in base ai topic o alle sezioni, ma il mio disagio rimaneva. Ho provato allora a usare un escamotage unendo il post ad una foto, stile libro con immagini. Purtroppo si legge un po' sfocato, ma volevo comunque sottoporlo alla vostra cortese attenzione, se mi dite che ne vale la pena ci posso perdere più tempo per vedere se riesco a far di meglio. :D
Ai giorni nostri..

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Re: Naufraghi 2.0
Seconda parte dell'esperimento.. :gazza:


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