Re: Straniero nella mia città
Inviato: 06/12/2015, 14:54
Bellissimo topic e spunto di discussione.
Leggendo le parole di Rod ho ritrovato molte delle mie riflessioni, domande e considerazioni.
Io sono partito di casa per l'America quando avevo 16 anni e da quel momento non mi sono più guardato indietro. Ma non perchè sia figo o altro, ma semplicemente perché ho avuto la straordinaria fortuna di trovare da subito esattamente quello che stavo cercando. Mi sono bastate poche settimane per capire che l'America- quella parte d'America in particolare- era il posto che faceva per me; e l'ho capito dal semplice fatto che mai prima di quel momento mi ero sentito così motivato, felice e fiducioso. Ora di anni ne ho 25 e- ostacoli burocratici a parte- il mio progetto di vita in America prosegue con più entusiasmo che mai.
Difficile dire cosa sia nello specifico che mi abbia attratto in primo luogo e cosa continui tuttora ad esercitare questa fortissima attrazione su di me, ma l'America è il posto dove sono veramente felice e realizzato. Mi ritrovo molto nelle parole di Rod anche quando dice che la sua famiglia lo prende in giro perchè fino a pochi anni prima di trasferirsi aveva problemi persino a spostarsi di pochi km: a me è successa la stessa identica cosa. Mio papà era convinto non avrei resistito un mese lontano da casa...
Personalmente sono molto attratto dall'idea di indipendenza (economica, personale...) tanto che non mi sono mai sentito così a posto con me stesso come quando a 22 anni ho iniziato a lavorare come insegnante e mi sono potuto comprare la mia prima macchina, pagandomi il mio affitto e comparandomi il mio cibo: è una sensazione di potere ed emancipazione inebriante.
Come diceva anche Spree ci sono fattori culturali evidenti che fanno sì che noi italiani viviamo la fase del distacco (sia emotivo che fisico) dalla famiglia di origine in modo molto diverso rispetto ad altri popoli. Io mi limito al confronto con gli americani perché è l'unica altra realtà che conosco. Per il teenager americano il rito di passaggio è sicuramente il college: a 18 anni ti trasferisci lontano da casa (in certi casi molto lontano) e in 4 anni acquisisci un'educazione all'indipendenza che poi- nel 99% dei casi- non vuoi assolutamente mollare alla fine dell'esperienza (ragion per cui sono pochi i casi di chi si ritrasferisce a casa dei genitori dopo il college). In Italia questo manca dato che anche chi va all'università molte lo fa nella sua città natale. Quel "salto" viene meno.
Condivido con Rod anche l'incomprensione verso amici italiani che sembrano accontentarsi di quello che a noi appare "poco" (o comunque non soddisfacente) invece che battersi, rischiare, mettersi in gioco per un qualcosa di più. E' un discorso che ho cercato di affrontare molte volte con i miei amici italiani, ma ho sempre paura di insistere troppo perché non vorrei essere bollato come uno che se la tira o che pensa di essere "migliore" (sarebbe da idioti: in fondo io ho avuto opportunità che magari tanti altri non hanno avuto, e senza quelle opportunità sarei anche io nella stessa identica situazione). Mi è sempre rimasta molto impressa una conversazione a cui assistetti qualche anno fa fra due miei amici che parlavano di un altra persona. Quest'altra persona- un mio amico raccontava all'altro- aveva un lavoro vicino a casa, ma un giorno il datore di lavoro lo ha messo di fronte ad una scelta: o ti trasferisci a Venezia o non ti rinnoviamo il contratto. Il tizio in questione aveva scelto la seconda opzione, ma la cosa che più mi lasciò sbalordito fu come i due miei amici ne parlavano come una cosa totalmente scontata: come a dire, ovvio che ha rifiutato! Venezia? Ma siamo matti? Troppo lontano. La persona in questione aveva 19 anni e nessuna responsabilità particolare.
Ovviamente è una scelta più che legittima, ma mi ha fatto riflettere molto sul modo di pensare di molti miei coetanei del posto: preferire abbandonare un lavoro piuttosto che mettersi in gioco (a 19 anni!) e trasferirsi a Venezia.
E' vero che come popolo siamo molto legati ai nostri posti di origine e ci trasferiamo (da una città ad un'altra) solo per certe situazioni, preferendo come regola generale di rimanere vicino ai nostri cari. Il che di per sé non sarebbe una cosa necessariamente negativa (oddio, per me sì, ma è soggettivo), ma temo che abbia un effetto molto negativo sulla mobilità sociale ed economica dell'Italia. Gli americani da questo punto di vista non si fanno problemi: ho amici- con cui sono andato all'HS- sparsi in tutto il Paese. Per certi versi gli americani sono quasi un popolo nomade (una casa si compra e si vende senza pensarci troppo; non fa parte dell'eredità di una famiglia come qua in Italia).
Poi secondo me bisogna anche considerare il momento storico. Magari fossimo negli anni '80 e '90 il nostro discorso e le nostre considerazioni cambierebbero: ci sarebbe più ottimismo e più vivacità. Ma in questo periodo, e qua concordo ancora una volta con Rod, stare in Italia mi procura un marcato senso di malessere fisico e psicologico. Mi rendo conto da solo che quando sono in Italia sono più buio, molto meno motivato e più timoroso. Per carità, è sicuramente più un limite mio, ma penso che il posto, le circostanze e la situazione influisca molto. Lo dico anche con il rischio di venire bollato come superficiale e disfattista, ma l'Italia mi dà veramente un'idea di depressione in questo momento. La gente che mi sta attorno (dalla mia famiglia, ai miei amici, a chi vedo in giro) si impegna, lavora duro, ma non si gode nulla: o meglio, si esce il sabato sera, si va alla partita e cose del genere, ma mi dà l'impressione che siano gesti quasi meccanici e neppure troppo divertenti, sicuramente privi di quell'entusiasmo e aggressività verso la vita che invece vedo prevalere negli Stati Uniti.
Noto molto più conformismo sociale qua: più gente che si veste alla stessa maniera, che si pettina allo stesso modo, che beve le stesse cose, frequenta gli stessi luoghi. Ogni volta che esco con il mio gruppo (gente che conosco dalle elementari, a cui voglio bene come fratelli) penso che l'obiettivo vero dell'uscita non sia quello di veramente divertirsi, ma recitare un copione. Forse pecco di arroganza e presunzione dicendo questo, ma sarei ipocrita se non lo ammettessi. Raramente mi diverto quando esco in Italia (pur spendendo), perché imho c'è troppa attenzione alle apparenze e alla percezione sociale (ostacoli) e poca sul provare a divertirsi seriamente (delle volte basterebbe chiamare gente a casa, fare scorta di birra e whisky e mettere delle musica). Ovvio che ognuno poi si diverta a modo proprio, ma questo imho c'entra poco.
capitolo ragazze: stendiamo un velo pietoso. Io non sono Cristiano Ronaldo e non è che neppure dall'altra parte dell'oceano abbia tutto questo travolgente successo, però un dato di fatto c'è: se provo un approccio con un paio di ragazze americane in un locale molto probabilmente succedono due cose: 1) o va bene e cominciamo a socializzare o 2) mi fanno capire che non sono interessate e si va avanti. Se faccio la stessa cosa in Italia di solito mi guardano come a dire "Che cazzo vuoi?". Non è questione di essere esterofili: è un discorso culturale. Basti vedere a come vado su Tinder negli USA e come (non) vado qua
Boh, forse ho solo una marea di cazzate, ma sono considerazioni che ho per la testa ormai da un po', e sono cose di cui ti accorgi solo nel momento in cui ti stacchi dalla realtà che hai sempre conosciuto. Quello che c'è di sicuro è che in Italia non ci sto bene (e ripeto: può essere benissimo un limite mio): mi manca l'aria. Preferisco 100.000 volte alzarmi mezz'ora prima la mattina per stirare le mie camicie ed essere indipendente che avere nonna e mamma a farmi 'ste cose. Ci sono delle cose a cui veramente non si può mettere un prezzo...
Leggendo le parole di Rod ho ritrovato molte delle mie riflessioni, domande e considerazioni.
Io sono partito di casa per l'America quando avevo 16 anni e da quel momento non mi sono più guardato indietro. Ma non perchè sia figo o altro, ma semplicemente perché ho avuto la straordinaria fortuna di trovare da subito esattamente quello che stavo cercando. Mi sono bastate poche settimane per capire che l'America- quella parte d'America in particolare- era il posto che faceva per me; e l'ho capito dal semplice fatto che mai prima di quel momento mi ero sentito così motivato, felice e fiducioso. Ora di anni ne ho 25 e- ostacoli burocratici a parte- il mio progetto di vita in America prosegue con più entusiasmo che mai.
Difficile dire cosa sia nello specifico che mi abbia attratto in primo luogo e cosa continui tuttora ad esercitare questa fortissima attrazione su di me, ma l'America è il posto dove sono veramente felice e realizzato. Mi ritrovo molto nelle parole di Rod anche quando dice che la sua famiglia lo prende in giro perchè fino a pochi anni prima di trasferirsi aveva problemi persino a spostarsi di pochi km: a me è successa la stessa identica cosa. Mio papà era convinto non avrei resistito un mese lontano da casa...
Personalmente sono molto attratto dall'idea di indipendenza (economica, personale...) tanto che non mi sono mai sentito così a posto con me stesso come quando a 22 anni ho iniziato a lavorare come insegnante e mi sono potuto comprare la mia prima macchina, pagandomi il mio affitto e comparandomi il mio cibo: è una sensazione di potere ed emancipazione inebriante.
Come diceva anche Spree ci sono fattori culturali evidenti che fanno sì che noi italiani viviamo la fase del distacco (sia emotivo che fisico) dalla famiglia di origine in modo molto diverso rispetto ad altri popoli. Io mi limito al confronto con gli americani perché è l'unica altra realtà che conosco. Per il teenager americano il rito di passaggio è sicuramente il college: a 18 anni ti trasferisci lontano da casa (in certi casi molto lontano) e in 4 anni acquisisci un'educazione all'indipendenza che poi- nel 99% dei casi- non vuoi assolutamente mollare alla fine dell'esperienza (ragion per cui sono pochi i casi di chi si ritrasferisce a casa dei genitori dopo il college). In Italia questo manca dato che anche chi va all'università molte lo fa nella sua città natale. Quel "salto" viene meno.
Condivido con Rod anche l'incomprensione verso amici italiani che sembrano accontentarsi di quello che a noi appare "poco" (o comunque non soddisfacente) invece che battersi, rischiare, mettersi in gioco per un qualcosa di più. E' un discorso che ho cercato di affrontare molte volte con i miei amici italiani, ma ho sempre paura di insistere troppo perché non vorrei essere bollato come uno che se la tira o che pensa di essere "migliore" (sarebbe da idioti: in fondo io ho avuto opportunità che magari tanti altri non hanno avuto, e senza quelle opportunità sarei anche io nella stessa identica situazione). Mi è sempre rimasta molto impressa una conversazione a cui assistetti qualche anno fa fra due miei amici che parlavano di un altra persona. Quest'altra persona- un mio amico raccontava all'altro- aveva un lavoro vicino a casa, ma un giorno il datore di lavoro lo ha messo di fronte ad una scelta: o ti trasferisci a Venezia o non ti rinnoviamo il contratto. Il tizio in questione aveva scelto la seconda opzione, ma la cosa che più mi lasciò sbalordito fu come i due miei amici ne parlavano come una cosa totalmente scontata: come a dire, ovvio che ha rifiutato! Venezia? Ma siamo matti? Troppo lontano. La persona in questione aveva 19 anni e nessuna responsabilità particolare.
Ovviamente è una scelta più che legittima, ma mi ha fatto riflettere molto sul modo di pensare di molti miei coetanei del posto: preferire abbandonare un lavoro piuttosto che mettersi in gioco (a 19 anni!) e trasferirsi a Venezia.
E' vero che come popolo siamo molto legati ai nostri posti di origine e ci trasferiamo (da una città ad un'altra) solo per certe situazioni, preferendo come regola generale di rimanere vicino ai nostri cari. Il che di per sé non sarebbe una cosa necessariamente negativa (oddio, per me sì, ma è soggettivo), ma temo che abbia un effetto molto negativo sulla mobilità sociale ed economica dell'Italia. Gli americani da questo punto di vista non si fanno problemi: ho amici- con cui sono andato all'HS- sparsi in tutto il Paese. Per certi versi gli americani sono quasi un popolo nomade (una casa si compra e si vende senza pensarci troppo; non fa parte dell'eredità di una famiglia come qua in Italia).
Poi secondo me bisogna anche considerare il momento storico. Magari fossimo negli anni '80 e '90 il nostro discorso e le nostre considerazioni cambierebbero: ci sarebbe più ottimismo e più vivacità. Ma in questo periodo, e qua concordo ancora una volta con Rod, stare in Italia mi procura un marcato senso di malessere fisico e psicologico. Mi rendo conto da solo che quando sono in Italia sono più buio, molto meno motivato e più timoroso. Per carità, è sicuramente più un limite mio, ma penso che il posto, le circostanze e la situazione influisca molto. Lo dico anche con il rischio di venire bollato come superficiale e disfattista, ma l'Italia mi dà veramente un'idea di depressione in questo momento. La gente che mi sta attorno (dalla mia famiglia, ai miei amici, a chi vedo in giro) si impegna, lavora duro, ma non si gode nulla: o meglio, si esce il sabato sera, si va alla partita e cose del genere, ma mi dà l'impressione che siano gesti quasi meccanici e neppure troppo divertenti, sicuramente privi di quell'entusiasmo e aggressività verso la vita che invece vedo prevalere negli Stati Uniti.
Noto molto più conformismo sociale qua: più gente che si veste alla stessa maniera, che si pettina allo stesso modo, che beve le stesse cose, frequenta gli stessi luoghi. Ogni volta che esco con il mio gruppo (gente che conosco dalle elementari, a cui voglio bene come fratelli) penso che l'obiettivo vero dell'uscita non sia quello di veramente divertirsi, ma recitare un copione. Forse pecco di arroganza e presunzione dicendo questo, ma sarei ipocrita se non lo ammettessi. Raramente mi diverto quando esco in Italia (pur spendendo), perché imho c'è troppa attenzione alle apparenze e alla percezione sociale (ostacoli) e poca sul provare a divertirsi seriamente (delle volte basterebbe chiamare gente a casa, fare scorta di birra e whisky e mettere delle musica). Ovvio che ognuno poi si diverta a modo proprio, ma questo imho c'entra poco.
capitolo ragazze: stendiamo un velo pietoso. Io non sono Cristiano Ronaldo e non è che neppure dall'altra parte dell'oceano abbia tutto questo travolgente successo, però un dato di fatto c'è: se provo un approccio con un paio di ragazze americane in un locale molto probabilmente succedono due cose: 1) o va bene e cominciamo a socializzare o 2) mi fanno capire che non sono interessate e si va avanti. Se faccio la stessa cosa in Italia di solito mi guardano come a dire "Che cazzo vuoi?". Non è questione di essere esterofili: è un discorso culturale. Basti vedere a come vado su Tinder negli USA e come (non) vado qua

Boh, forse ho solo una marea di cazzate, ma sono considerazioni che ho per la testa ormai da un po', e sono cose di cui ti accorgi solo nel momento in cui ti stacchi dalla realtà che hai sempre conosciuto. Quello che c'è di sicuro è che in Italia non ci sto bene (e ripeto: può essere benissimo un limite mio): mi manca l'aria. Preferisco 100.000 volte alzarmi mezz'ora prima la mattina per stirare le mie camicie ed essere indipendente che avere nonna e mamma a farmi 'ste cose. Ci sono delle cose a cui veramente non si può mettere un prezzo...