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da nickpacker » 04/12/2014, 21:20
In principio fu l’infanzia. I nostri sogni, i nostri miti, la nostra iconografia più o meno classica. Il calcio, la birra, la torta di zucca, deliziosi misteri da disvelare, l’emozione di un gesto vincente, di una canzone o di una scena di un film vista e rivista mille volte.
I Green Bay Packers, per chi è qui, per chi condivide questa velleità, questa passione.
L’infanzia lascia poi spazio all’adolescenza e alla vita adulta, ne lascerà altro alla senescenza. In ogni periodo, però, credo che non si debba mai perdere l’etica fanciullesca del sogno. Quella che non è una fuga dalla realtà, quanto più ritrovare chi eravamo. Chi siamo. Quella che ci porta a fare migliaia di miglia per vedere una partita. Quella che guida Milko ad accompagnare Kowalski amorevolmente fuori dalla Titletown Brewery, come fosse uno di noi. Guardarlo con occhi paternalistici e traboccanti sufficienza sarebbe da sciocchi. Quella di fronte alla quale, il nostro viaggio è accolto dal nostro entourage con sguardo stupefatto e vagamente invidioso. Di un’invidia buona però, di fronte a chi esce da uno schema classico, della partita di calcio della domenica, o della vacanza agostana a Rimini.
E poi se ne parla, da anni, ormai. Gridiron mi è testimone. Mille problemi, mille contingenze.
Fino a questa primavera.
La prima emozione vera l’acquisto dei biglietti. Un confine invalicabile. Il confine di Ticket Exchange è stato il varco che ci ha dischiuso le porte di Green Bay. Si va!
Per il cosa e come sia accaduto, Shilton già ha detto. Mi rimangono flash, nitidissimi, di questa esperienza incredibile e onirica.
La Groenlandia vista dall’alto, come fosse un memento della neve e del freddo che ci attende nel Wisconsin.
La pantagruelica cena del Thanksgiving, con il delizioso tacchino di Laura Sue. Un po’ clichè, con il suo ripieno, la purea di patate dolci e la composta di frutti rossi. Ma è proprio quello che ci vuole, per un’allegra brigata di edonisti come la nostra: colmare il gap troppo spesso incolmabile tra fantasia e realtà.
Il venerdì è la giornata più strana, una sveglia parecchio precoce, molto prima che albeggi.
Una Milwaukee sonnolenta e gelida di un semifestivo; un Fonzie intirizzito e stanco; un Sentinel che profuma di passato, di giornalismo che fu.
E poi il coronamento del pellegrinaggio, l’arrivo a Green Bay. Sotto la neve.
Le statue, il tour, con gli spalti e gli spogliatoi, il tunnel e il campo, ciò che si vede da giù, l’erba sotto la neve, l’atrium, i colori Packers e Patriots (tantissimi) che iniziano a mescolarsi. Come in un frullato che inizia ad assumere i colori dei vari ingredienti appena si inizia a frullare.
Un sabato a Madison. Per i Badgers. Passando per Fond du Lac, con il suo lago ghiacciato, dove il tempo pare essersi fermato. Congelato, sarebbe il caso di dire. Qualche breve pausa in gioiellerie del luogo per un caffè. Non seguo il college, ma l'esperienza è unica. Sia prima che durante. Inizio a capire cosa sia il football per gli americani. Una vera religione, un rito pagano. Grande intensità, con le varie feste, la banda, le grigliate, i ricordi di tifosi non più giovanissimi, e di tifose ageè infatuate di Packers italiani di mezza età.
Vedere Melvin Gordon già mi basta. Poi arriva il jump around e la vittoria contro Minnesota.
L’antipasto è servito.
Con i suoi leit-motiv, che può comprendere solo chi ha partecipato. e che può sorridere se dico "First and Goal Wisconsin", "Vacca boia", "Automatic first down". O tafanario.
Per gli altri, alcuni sprazzi che escano più vividi che posso, da queste parole.
E’ domenica. E’ Gameday. Oggi il GamePass non serve. Oggi siamo qui.
Alle 9 siamo già al Lambeau. Incrociamo Mike Ditka col suo immancabile sigaro e un paio di scarpe invedibili. Un allevatore dell’Iowa con la sua gentilezza e l’orgoglio di quel che fa. E’ accompagnato dal figlio, immagino come sia la sua vita, cosa rappresenti per lui essere qua.
Personaggi caratteristici, foto, e infine tailgating. Al di là di ogni descrizione. Alessandro incontenibile. Milko King of Taligating.
Le ore passano come refoli di vento, seppur gelide.
Entro al Lambeau a 77 minuti dall’inizio. Mi sono parsi 77 secondi. Persi tra gli occhi divertiti ma interrogativi dei tifosi del nostro settore squadrare un Milko che, indossando la 12 del signor Bundchen, brandisce il nostro cartello "5000 miles to be here. Italian Packers fans".
Il kickoff è arrivato in un soffio. Partiamo bene, attacco e difesa dominanti. Non siamo incisivi in red zone ma ci troviamo avanti 13-0 in un attimo con un Lacy che macina e qualche sbavatura per gli standard non umani di Rodgers. I Patriots sono solidi. Brady pure. Un’oretta prima entrava in campo per il warm-up battendosi i pugni sul petto e arringando la folla, per rispondere agli ululati di disapprovazione del Lambeau. Non ce lo avrei visto Rodgers fare lo stesso in casa dei bostoniani. Ad ogni buon conto, si presenterà tra qualche ora in conferenza stampa agghindato come un damerino, con indosso un chiassoso tre pezzi a quadri. Perdente.
I Patriots rimontano, accorciano le distanze. La segnatura di Nelson allo scadere del primo tempo è una boccata d’ossigeno. Chiudiamo il tempo a +9. L’halftime è impalpabile. Lo spendo alla ricerca di qualcosa di caldo. L’imbrunire ha portato con sé altro freddo. Le nostre membra gelate, i nostri cuori arroventati. E’ uno strano connubbio. Fossimo una nazione saremmo l’Islanda, ghiacciai e vulcani. Ottantamila islandesi. Penso che se costruissero altri tre Lambeau Field, conterrebbero tutti gli abitanti dell’Islanda (oltre a fare sempre sold-out). Questo flusso di coscienza quasi joyciano però non mi distrae dal match. Penso al “jump for Joyce” e mi viene da ridere. Non lo dico a nessuno. Si ricomincia. Terzo quarto tirato. Difese in controllo. Fino all’inizio del quarto. Loro segnano. Sul +2 non mi sento troppo a mio agio. Palla a noi. Ci vuole un touchdown. In effetti un ottimo drive arriva. La linea offensiva è clamorosa. Il suggello perfetto è una saetta, un laser-throw, diretto tra i numeri 1 e 7. Ci alziamo tutti. Pronti a esultare. Anzi di più. E' già TD Adams. E poi, l’errore madornale del mio pupillo, un talento cristallino che può entrare nel lotto dei grandi wide receiver di questa squadra. Gli attimi seguenti il drop, testa tra le mani, occhi chiusi, tormentato dall’odore acre, sanguinolento e nauseabondo della sconfitta. I tre punti di Crosby, un inutile lenitivo.
+5 a 8 dalla fine e palla a loro. Convertono terzi e quarti down, il momentum è tutto con loro. La sagoma di Belichick sulla sideline è inconfondibile. Sembra una belva feroce (anche se in effetti non più giovanissima e un pò male in arnese) pronta a uccidere.
A volte, nello sport come nella vita, hai la nitida sensazione del treno che passa e che non tornerà più.
Ecco. Per tutto quel drive mi sono sentito così. Ale già dai primi possessi in red zone non capitalizzati me lo ripeteva. Io ero ottimista allora, però ora sentivo che sarei dovuto essere un po’ più cauto di così.
Proprio in quel momento, in quell’attimo in cui ti accorgi di camminare sul filo sottile tra tripudio e distruzione, tra apoteosi e dramma, tra delirio e disfatta, su quel terzo down, è arrivato il sack. L’unico del match, che ha sancito la vittoria.
Quello, il boato del Lambeau, rimarrà sempre con me.
Il suggello sarà poi il completo di Cobb su quel terzo down, ma io dopo il sack, già sapevo. L’urlo del Lambeau aveva stabilito la vittoria; chiamarlo momentum sarebbe riduttivo.
Alessandro mi percuote le pudenda con manate non troppo gentili, pensando che fossi rivolto di fianco; in realtà, lui era troppo assorto e io ero troppo di fronte.
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