Le nostre recensioni degli album storici

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Le nostre recensioni degli album storici

Messaggio da frog » 08/12/2009, 20:18

So che ci sono già più topic in cui la musica viene trattata da diverse angolazioni. Questo vorrebbe essere un angolo in cui ognuno può prendere l'album che reputa migliore del suo artista preferito e vivisezionarlo per noi.
Ultima modifica di frog il 16/12/2009, 10:42, modificato 1 volta in totale.
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Re: Recensioni storiche

Messaggio da frog » 08/12/2009, 20:26

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Uscita: UK: 22.11.1968 - USA: 25.11.1968 Italia: 11.11.1968

Prodotto da George Martin
Etichetta: Apple
Casa discografica: EMI

Il disco noto a tutti come “the White Album”, viene inciso nell’estate del 1968. Nonostante non fosse passato neanche un lustro dal periodo della Beatlemania, sembrava di vivere in un altro secolo. Anche l’abbaglio luccicante della psichedelia, scoppiata prepotentemente nell’estate del 1967, “the Summer of Love”, mostrava le prime crepe e all’acido che allargava l’orizzonte della mente, si stava passando all’eroina dei Velvet e allo sballo delirante reso celebre da Al Pacino di Scarfaciana memoria, della cocaina. Gruppi come Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath si apprestavano a ridisegnare con un metallo più pesante le gerarchie nel mondo del rock. Piu in generale il maggio del sessantotto, la rivoluzione poi stroncata con i carri armati di Praga, segnavano un anno che sarebbe rimasto nella storia. I Beatles arrivavano a quell’estate avendo incassato il loro primo flop della carriera. Magical Mystery Tour, film girato per la TV inglese e messo in onda la notte di Natale del ’67, era risultato indigesto ai più. Dopo la controversa spedizione indiana a Rishikesh in meditazione trascendentale, nell’aria respirata dai quattro baronetti si percepiva un sottile senso di sgretolamento che sarà vistosamente presente nelle tracce dell’album bianco.
Parliamo dunque di ciò che, a mio giudizio, risulta essere il miglior album del più grande gruppo musicale all time. Uscito nel novembre del 1968, The Beatles, è un doppio album, l’unico tra quelli usciti mentre il gruppo era ancora insieme. Il titolo, ononimo e anche un po’ anonimo, è dovuto all’involontario scippo dei Family, gruppo inglese che pubblicò nell’agosto di quell’anno il loro LP di debutto intitolato “Music in a Doll’s House”. I quatto ragazzi di Liverpool avrebbero voluto chiamare il loro “A Doll’s House”. Inutile dire che questo titolo avrebbe decisamente reso l’idea di ciò in cui l’ignaro ascoltatore si sarebbe trovato immerso. Invece anche la copertina, spiazzante dopo l’indigestione di colori e immagini a tinte forti delle ultime opere d’influenza lisergica, completamente bianca, non aiutava a prevedere l’impasto di emozioni contrastanti inserite  nell’opera. Trenta pezzi, 30 bamboline che si tengono per mano, grazie ad una seduta fiume di ventiquattrore in sala d’incisione durante la quale John, Paul e George Martin riuscirono a nascondere ruggini e contrasti, sfociati anche in un paio di risse, del gruppo, facendo scorrere sapientemente nel miglior modo possibile l’incastro musicale.
I brani:
Back in the USSR: rock classico che fa ironicamente il verso con il dovuto rispetto, a Chuck Berry e alla sua Back in the USA. McCartney canta ispirandosi a Elvis, il risultato è all’altezza.
Dear Prudence: uno dei tanti pezzi dell’album dove i Beatles, in questo caso John Lennon, mettono a frutto la tecnica del fingerpicking, insegnata loro da Donovan nei lunghi pomeriggi indiani, dove la mancanza di corrente elettrica aveva spinto i nostri a fare largo uso di chitarre acustiche. Il pezzo è dedicato alla sorella di Mia Farrow che sempre in India venne fatta oggetto delle attenzioni del Santone, il quale in quel caso, non si può proprio dire si sia comportato da sant’uomo.
Glass Onion: ancora John, sarcasticamente lancia molteplici tracce ai maniaci sempre in cerca di nuovi elementi che potessero incastrarsi nella fantasiosa versione sull’ipotetico incidente mortale accorso a Paul. Questo macabro scherzo si rivelò in tutta la sua tragicità quando Lennon si trovò faccia a faccia con un invasato di primo livello nel 1980.
Ob-La-Di-Ob-La-Da: uno dei pezzi che fece venire voglia a John di lasciare i Beatles. Il brano è oltremodo famoso, Paul pretese ore e ore di lavoro in sala prove mettendo a dura prova la pazienza dei compagni. La grandezza di McCartney viene minata a volte dalla sua voglia di creare motivetti orecchiabili fini a se stessi.
Wild Honey Pie: se volete smascherare qualche pseudo esperto dei Fabfour, sottoponetelo all’ascolto di questo brano a tradimento, chiedendogli se sa di chi è, il test è probante. Paul McCartney in versione autorionica.
The continuing Story of Bungalow Bill: John Lennon in questo album ne ha per tutti, in questo caso prende di mira un cacciatore bianco conosciuto in Africa, ridicolizzando, con l’aiuto dell’irritante vocina di Yoko Ono, il mito degli amanti della caccia grossa.
While my Guitar Gently Weeps: primo brano di Harrison dell’album, dolce ballata di cui esiste anche una splendida versione acustica. Qui si può ascoltare il tocco di Eric “Slow Hand” Clapton che ci delizia nell’assolo finale.
Happiness is a warm Gun: Lennon era come una spugna, non solo al bar, riusciva ad assorbire ogni cosa rielaborandola da par suo. In questo caso, il titolo prende spunto da una pubblicità della Rifle Association, il sarcasmo è sparso a piene mani, specie nei coretti finali. Il brano vide i 4 sostenere un notevole sforzo nell’eseguire a dovere un pezzo piuttosto complesso per le loro limitate doti tecniche.
Martha my Dear: questa dolce canzoncina in tipico McCartney style, fu da lui scritta per la sua cagnolina. E’ l’apertura del lato B, il viaggio riprende rimanendo ad altezze notevoli.
I’m so tired: indicata spesso come il seguito di I’m only sleeping presente su Revolver, contiene una spassosa invettiva allo scopritore del tabacco, le corde vocali di Lennon emanano sensazioni da pelle d’oca in un interpretazione come sempre impeccabile.
Blackbird: Paul voce, chitarra acustica e ritmo tenuto con il battito del piede, usa a piene mani del fingerpicking, se amate il genere, chiudete gli occhi e lasciatevi cullare dolcemente.
Piggies: George Harrison è il Beatles meno famoso, ricordato come colui che portò nel gruppo l’influenza orientale, la meditazione, la pace e la tranquillità, in realtà aveva semplicemente poca voglia d’immischiarsi nelle beghe quotidiane e ancor meno considerazione del volgo. In questo brano non risparmia il vetriolo, basti pensare che, insieme ad Helter Skelter, verrà citato da Charles Manson come brano che lo ispirò per le sue stragi.
Rocky Raccoon: scherzo in stile western questo è uno dei tanti brani che, se l’armonia del gruppo lo avesse reso possibile e i consigli di George Martin fossero stati ascoltati, sarebbe stato tagliato per arrivare ad un ottimo album singolo. McCartney riesce comunque a rendere piacevole anche questo divertissement.
Don’t pass me by: uno dei due pezzi di Ringo, in stile country, come piaceva all’uomo dai molti anelli, l’accompagnamento di tale Jack Fallon al violino lo rende ascoltabile.
Why don’t we do it in the road: se vi siete mai chiesti perché i Beatles erano i Beatles, anche la presenza di un brano come questo, cantato dalla stessa voce di quello che segue, vi darà la risposta. Come per gli alpini, anche per loro non esisteva l’impossibile. Questa sparata di pura adrenalina con messaggio neanche troppo velato, fu registrata da McCartney da solo, il quale suonò tutti gli strumenti, pare per ripicca, dopo non essere stato consultato durante la registrazione della delirante, Revolution n.9.
I will: come detto sopra, canta Paul McCartney, voce vellutata, melodia accattivante, parole mielose, si è proprio lui.
Julia: dedicata alla madre, il testo viene letto da molti come la testimonianza del passaggio di consegne nel cuore di John dalla compianta mamma a Yoko, Peace & Love. L’arpeggio è sempre dovuto agli esercizi indiani, la furia si è momentaneamente calmata, Lennon sa anche essere dolce.
Birthday: l’apertura della terza facciata ci riporta nel repertorio rock, il tentativo di approcciarsi alle nuove sonorità non pare riuscitissimo, ma la voce di McCartney, come al solito, spacca.
Yer Blues:anche la nuova ondata di blues britannico, non sfuggì alla pungente ironia di Lennon. Il testo sembra scritto da un Leopardi depresso, la musica è blues classico un po’ inacidito dall’assolo.
Mother Nature’s sun: McCartney acustico in versione figlio dei fiori ci porta a fare un giro per le campagne inglesi.
Everrybody’s got something to hide except me and my monkey: il brusco risveglio è solo sonoro, infatti si passa dal tedioso pomeriggio assolato di campagna ai suoni schizofrenici alle grida e agli schiamazzi di un Lennon disposto a giocare con le parole e i doppi sensi.
Sexy Sadie: la rabbia per la pseudo truffa indiana venne incanalata da Lennon in questo brano a cui fu costretto a rimettere mano al testo per evitare una querela. La canzone ti avvolge in continui sali scendi dove la voce effettata di John sa come farsi apprezzare.
Helter Skelter: definito da alcuni come il primo brano heavy metal della storia del rock è stato rivisitato da molti artisti nel tempo. In origine era un lunghissimo pezzo blueseggiante. Ridotto a versioni umane, è graffiante, ma gli Who, da cui McCartney prese ispirazione, erano un’altra cosa.
Long long long: George Harrison nella versione mistico meditabonda porta alla causa un pezzo intenso con un finale, nato da un evento accidentale, ma sfruttato al solito in maniera sublime dal gruppo di Liverpool.
Revolution 1: questa versione lenta, è l’originale dalla quale nacquero successivamente le altre due revolution pubblicate dai Fabfour. Il testo, a discapito del titolo, mostra una posizione piuttosto riflessiva e poco propensa all’azione rispetto ai tumulti dell’epoca. Lennon, che cantò sdraiato a pancia all’aria in sala d’incisione per produrre il suon di voce rilassato che desiderava, era piuttosto critico rispetto alle rivoluzioni violente. I suoi successivi impegni pacifisti presero maggior vigore proprio a partire da quel periodo.
Honey Pie: ancora una volta McCartney cade nella tentazione di ripescare un genere anteguerra. Fortemente influenzato dal passato musicale del padre, il brano è come sempre confezionato con buon gusto, naturalmente il vecchio Paul ci ha abituati a bel altro.
Savoy Truffle: il testo fu scritto da George per elencare i vari tipi di cioccolatino di cui era accanito consumatore l’amico Clapton. Riempitivo gradevole di rock fine anni sessanta.
Cry baby cry: questa filastrocca tipicamente Lennoniana nel suo incedere ipnotico concilia il sonno, anche grazie ad un arrangiamento decisamente scarno.
Revolution 9: l’eventuale abbiocco raggiunto con il precedente pezzo, potrebbe trasformarsi nel peggiore degli incubi durante l’ascolto di questo aggrovigliato esperimento d’avanguardia musicale. Giusta risposta a chi parla dei Beatles come di un gruppo prettamente commerciale.
Goodnight: molti caddero nell’equivoco di accreditare a McCartney questa avvolgente ninna nanna che fa riemergere l’ascoltatore con un rassicurante intro orchestrale dalle paludi di revolution 9. Eppure l’autore è sempre lo stesso John Winston Ono Lennon, genio e sregolatezza. La voce è quella di Ringo. Il timbro è quello dei Beatles. Unici e inimitabili, ieri, oggi e per sempre.
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Re: Recensioni storiche

Messaggio da The Snake 12 » 08/12/2009, 20:52

grande topic  :notworthy:
non ho mai capito l'accordatura della chitarra di John in Dear Prudence.

Per il momento riciclo qualche fesseria che scrissi anni fa su "Horses" di Patti Smith, uno degli ultimi grandi dischi del rock. Robert Plant aveva già perso la voce e cantava "Rock and Roll" un'ottava sotto, Ritchie Blackmore aveva lasciato i Deep Purple e Peter Gabriel i Genesis. Jimi era morto da un pezzo, così come Jim, Janis e Pigpen. Di lì a poco Paul Kossoff avrebbe trovato la morte nel cesso di un aereo, e Bernie Leadon aveva già versato una lattina di birra in testa a Glenn Frey, sancendo la sua uscita dagli Eagles.

Patti Smith - Horses

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Uno dei dischi d'esordio più seminali di sempre. Period.
Secco, minimale e, come ogni opera d'arte, senza compromessi.
Oltre ogni genere musicale (del resto chi li ha definiti ? Esistono solo 2 generi : la musica buona e la spazzatura), zero autoindulgenza, nessuna concessione ai virtuosismi se non a quelli dell'anima.
Un'opera non facile, priva delle hits "nazional-popolari" (nel senso più nobile del termine) della Smith. Nessun calo di tensione, da "Gloria" (cover trasfigurata dei Them di Van Morrison) fino alla notturna "Elegie". Passando da Redondo Beach, Birdland (picco emotivo del disco), Break It Up (con gli interventi chitarristici di Tom Verlaine dei Television) e Land, un vortice di pensieri vomitati con urgenza. Impossibile restare indifferenti.
Da ascoltare a volume alto, per cogliere il senso di ogni singola nota. E se fuori è notte, tanto meglio. 

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Re: Recensioni storiche

Messaggio da Cobain88 » 10/12/2009, 9:50

Album:Nevermind
Artista:Nirvana
Data di pubblicazione:24 settembre 1991
Etichetta:Geffen Records

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"Nevermind".
Gia' dal titolo si capisce che questo non e' un album come gli altri.Un titolo volutamente sgrammaticato,che gia' riflette l'inquietitudine che porta con se' e che mostrera' al mondo intero.
E gia',perche' il secondo disco del terzetto di Seattle(Kurt Cobain voce,chitarra e anima del gruppo,Krist Novoselic al basso e Dave Grohl alla batteria)e' quello della consacrazione a divi planetari,con 25 milioni di copie vendute che segnano ufficialmente la nascita(quasi preannunciata dalla copertina,destinata a diventare un'icona della storia del rock)del movimento grunge,una versione quasi decadente e decadentista del punk rock.
"Nevermind" diventera' l'inno di quella "Generazione X" che ormai si e' stancata persino di rifiutare,e che agli eccessi di un certo modo di fare musica proprio del rock anni '80 contrappone invece la dubbia personalita' di Cobain,
schiva,taciturna,quasi nichilistica nel suo modo di intendere la musica e la vita stessa.
I 42 minuti che cambieranno,forse per sempre,i neonati anni Novanta.



Le tracce:

1.Smells like teen spirit:Il brano piu' famoso dei Nirvana come apertura del loro disco di maggior successo.Un brano che con gli anni Cobain iniziera' a odiare,senza pero' mai rinnegarne la portata quasi rivoluzionaria.

2.In bloom:altro piccolo capolavoro,dedicata ad uno dei primi fan dei Nirvana(he's the one who likes all our pretty songs)

3.Come as you are:vieni come sei,la richiesta di un Cobain "smemorato".Da sottolineare i potenti riff di basso iniziali,altro marchio di fabbrica e segno di riconoscimento del gruppo.

4.Breed:si torna a sonorita' distorte per sottolineare le urla di diniego di Cobain(I don't care,I don't care,I don't care).Una scelta che comparira' spesso in "Nevermind".

5.Lithium:si torna ad un atmosfera piu' riflessiva,senza pero' rinunciare ad un po' di sana distorsione,per un brano nel complesso piu' intimista(almeno cosi' sara' dovuto sembrare alle orecchie di Cobain).

6.Polly:una classica ballad,forse la piu' famosa dei Nirvana.Stavolta l'atto di negazione sta nel testo,che racconta di come viene vista la vittima di un prossimo stupro dallo stupratore stesso.Il suo significato sara' poi completato da un'altra famosa canzone dei Nirvana,"Rape me"(e chi conosce l'inglese ha gia' capito).

7.Territorial Pissing:Riesplode nuovamente la rabbia dei Nirvana,mai completamente sopita nell'intero album.Da sottolineare il modo in cui viene cantata questa canzone,quasi al limite della pazzia,in un connubio ben riuscito di musica e parole.

8.Drain you:qualcuno ci potrebbe anche vedere una canzone d'amore,resta da capire quale sarebbe l'amore decantato e soprattutto da che cosa intendesse
Cobain per "prosciugare"(drain).

9.Lounge Act:Forse una delle canzoni piu' belle,anche dal punto di vista stilistico, dei Nirvana a non essere riuscita ad imporsi nell'immaginario collettivo.Ancora si fa riferimento allo schema Verse-Chorus-Verse(Strofa-Ritornello-Strofa)tanto caro ai Nirvana e a tutto il movimento grunge.

10.Stay Away:se qualcuno avesse pensato che la carica di energia di "Nevermind" fosse terminata,questo pezzo e' pronto a dimostrare il contrario.

11.On a plain:uno dei singoli tratti da questo fortunato album,forse il piu' irriverente dell'album e comprensibile solo a chi riesce ad addentrarsi nella logica profonda della poetica di Cobain(I'm on a plain,I can't complain...black sheep got blackmailed again)

12.Something in the way:leggende metropolitane vogliono che Cobain abbia partorito questa traccia sotto un ponte dopo essere stato cacciato da casa del padre(i genitori divorziarono quando lui aveva 9 anni);questa canzone e' il degno lamento conclusivo di un disco assolutamente pazzesco.
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Re: Recensioni storiche

Messaggio da L-Magic » 11/12/2009, 19:55

The Piper At The Gates Of Dawn
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E' il 21 febbraio del '67, quando quattro giovani promesse della psichedelia entrano negli studi di Abbey Road per registrare il loro primo album. I Pink Floyd erano già molto conosciuti per via dei loro due primi singoli, Arnold Layne e See Emily Play, che avevano riscosso molto successo tra i giovani del tempo (ed anche molto scalpore tra i meno giovani, dato che Arnold Layne parla di un travestito. Per questo alcune radio censurarono addirittura il pezzo) ed erano già conosciuti dal pubblico londinese anche prima dell'uscita di questi due singoli, per via delle loro deliranti esibizioni all'UFO, un locale dell'underground londinese in cui circolava moltissima della droga del tempo, l'LSD, vera benzina del movimento psichedelico. In questo locale si trovavano spesso stelle già affermate, come Pete Townshend, Eric Clapton, Paul McCartney, Jimi Hendrix e molti altri che venivano per ascoltare Syd e compagnia. In queste apparizioni Syd Barret si dava all'improvvisazione sfrenata e i suoi compagni si trovavano completamente spaesati. Ma al pubblico dell'UFO questo piaceva, ed anche le varie star che sentivano queste esibizioni apprezzavano molto questo nuovo modo di suonare, ben lontano dall' R n' B e molto disordinato.

Dunque si capisce che questo album d'esordio era attesissimo dal mondo della musica. Le registrazioni del Piper non furono affatto semplici. Syd aveva già iniziato il crollo nervoso che lo avrebbe portato ad essere cacciato dalla band pochi mesi dopo, e coloro che hanno collaborato all'album affermano che lavorare col genio creativo Barrett non era affatto semplice. Norman Smith, il produttore, afferma che Syd non era mai entusiasta di niente, ed ogni consiglio che gli veniva dato, era completamente ignorato. Secondo Smith fu un miracolo riuscire a concludere le registrazioni del'album.

Il Piper contiene quasi esclusivamente composizioni di Syd, infatti gli altri membri del gruppo non avevano la creatività del loro frontman e non possedevano nemmeno grandi capacità tecniche (addirittura Waters non sapeva accordare il suo basso e veniva aiutato da Rick Wright nell'ardua impresa). Nemmeno Syd era un fenomeno della tecnica, anzi, però il suo genio colmava le sue lacune tecniche.   
Soltanto nella stesura di un pezzo, Take Up Thy Stethoscope And Walk, di Waters, Barrett non partecipò. Non a caso il pezzo è uno dei pochi punti deboli dell'album.

Il primo pezzo è Astronomy Domine, un vero e proprio viaggio interstellare intrapreso da Barrett sotto gli effetti del suo primo acido. Durante questo suo trip, Barrett aveva immaginato di viaggiare tra Giove, un'arancia, e Venere, una prugna. Già da qui si capisce dunque come il genio di Syd fosse alimentato dall'LSD. Astronomy Domine non lascia molto spazio al cantato e ne lascia molto all'improvvisazione, infatti era uno dei pezzi che i Floyd suonavano all'UFO.
Il disco continua con Lucifer Sam, brano dal riff di chitarra minaccioso, il cui testo fu scritto da Barrett ai tempi in cui viveva a Cambridge, infatti vi si trova un riferimento alla sua ragazza del tempo (Jennifer gentle, you are a witch, probabilmente fu scritto dopo una delle tante litigate). La canzone è molto orecchiabile ed entra subito in testa.
Matilda Mother è il terzo brano dell'album. Anch'esso molto orecchiabile e apprezzabile, è strutturato sull'alternarsi di pezzi minacciosi e pezzi spensierati e "rassicuranti".
Flaming è uno dei miei brani preferiti dell'album. Anche qui l'organo di Wright (decisamente il miglior musicista del gruppo, tecnicamente parlando) alterna pezzi tetri e gravi a pezzi rapidi e acuti più allegri. Il canto di Syd è allucinato, con gridi di gioia, sillabe scandite (classico elemento del suo modo di cantare) e consonanti molto accentuate.
Pow R. Touch e Take Up Thy Stethoscope And Walk sono due brani di transizione, il primo basato su una lunga improvvisazione di Wright e il secondo piuttosto insignificante.
Dopo questi due brani è il turno della lunga Interstellar Overdrive, il secondo brano spaziale di Barrett. Questo pezzo era uno dei brani che venivano sempre suonati all'UFO ed è infatti il pezzo che rende meglio l'idea di che genere di gruppo fossero i Pink Floyd al tempo. Strani suoni improvvisati da Barrett tramite stravaganti modi di utilizzare amplificatori e effetti sonori, chitarra suonata con qualsiasi oggetto si trovasse nei paraggi di Syd (spesso usava il suo Zippo, il famoso accendino), suoni provenienti da strumenti che i Floyd avevano trovato la prima volta nella cantina del possessore della loro vecchia dimora (Mike Leonard fu estremamente importante nella storia del gruppo, poichè fu lui il primo ad occuparsi dell'illuminazione nei loro concerti, elemento fondamentale della carriera live dei Floyd), il tutto accompagnato dal minaccioso riff, suonato in tutti i modi possibili da Barrett. Un amico dell'adolescenza di Syd afferma che questo riff fu composto da Barrett semplicemente seguendo con la chitarra il riff di una canzone che gli stava canticchiando. Interstellar Overdrive fu il grande capolavoro dei Floyd.
Dopo il delirio di Interstellar Overdrive si svolta completamente, e si va in una filastrocca proveniente dalle fiabe, cantata da Barrett col solito tono allucinato ancora più accentuato, The Gnome. Pezzo molto orecchiabile che è probabilmente il mio preferito dell'album.
Il testo di Chapter 24 si ispira ad un antico libro di profezie cinese di cui Syd era in possesso e che andava di moda ai tempi. La profezia che colpì Barrett era scritta al capitolo 24 e il titolo si riferisce proprio ad esso. Canzone in cui è evidentissima la caratteristica dell'alternanza tra spensieratezza e minaccia.
In Scarecrow la batteria di Mason produce un effetto simile a quello di un cavallo al trotto, che accompagna tutta la canzone. E' un altro pezzo molto apprezzabile.
Bike è il degno finale di un grandissimo album. Testo che si riferisce nuovamente alla ragazza di cui Syd parla anche in Lucifer Sam. Anche qui compaiono gli effetti stravaganti che caratterizzano tutto l'album. Bike fu addirittura definita uno dei più grandi brani di sempre da Joe Boyd (un produttore che fu estromesso dalle registrazioni prima dell'inizio di esse), considerazione che, in tutta sincerità non mi sento di condividere.
Ultima modifica di L-Magic il 19/12/2009, 17:49, modificato 1 volta in totale.
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Re: Recensioni storiche

Messaggio da The Snake 12 » 11/12/2009, 21:37

David Crosby: If I Could Only Remember My Name (1971)

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"The perfect organic listening experience". Queste le parole con cui Graham Nash definì il primo disco solista di David Crosby. A prima vista possono sembrare esagerate, ma in effetti descrivono bene quello che più di un disco è un'esperienza mistica in territori allora inesplorati. Se Roger McGuinn era stato il Byrd più fedele alla lezione dylaniana, Gene Clark quello più introspettivo e Chris Hillman quello più legato alla tradizione folk-bluegrass, David Crosby era lo sperimentatore con un occhio sempre puntato verso le avanguardie. Accordature spesso indecifrabili, atmosfere sghembe ed eteree, una capacità innata di trascendere i generi musicali, sfuggendo alle etichette come solo le menti illuminate sanno fare. Una personalità troppo forte per poter coesistere a lungo in una band. Fu l'uomo che i Byrds sostituirono con un cavallo, vedere la copertina di "The Notorious Byrd Brothers".
E curiosamente, al Festival di Monterey del 1967 Crosby rimpiazzò Neil Young nella line-up di un altro gruppo-polveriera della scena losangelina di quegli anni, i Buffalo Springfield del suo amicone Steve Stills. Proprio con Stills e con Graham Nash formò uno dei primi super-gruppi della storia, incidendo un folgorante disco nel 1969 (intitolato semplicemente "Crosby, Stills & Nash").
L'anno successivo sarebbe arrivato "Deja Vu", altro disco seminale, registrato insieme a Neil Young... tanto per chiudere il cerchio.
Ma le cose belle durano poco, e forse sono belle proprio per questo.
Troppi galli nel pollaio, troppo successo, troppa coca, troppo alcol. Dopo un tour trionfale nel 1970, le strade dei 4 si separano.
Crosby lascia L.A. e si trasferisce a San Francisco, assieme alla fidanzata Christine Hinton e alla sua ex Debbie Donovan. Pochi giorni dopo Christine viene uccisa, investita da un'auto.
Croz cura le ferite dell'anima gettandosi ancora di più nelle droghe e nell'alcol, e prova a risollevarsi dedicandosi anima e corpo a quello che sarà non solo il suo capolavoro assoluto, ma anche il disco-manifesto della scena californiana a cavallo tra i '60 e i '70. Una scena non competitiva ma cooperativa.
Così chiamò a raccolta Jerry Garcia, Phil Lesh, Mickey Hart e Billy Kreutzmann dei Grateful Dead, Paul Kantner, Grace Slick, Jorma Kaukonen e Jack Casady dei Jefferson Airplane, Joni Mitchell, Mike Shrieve e Gregg Rolie dei Santana, Laura Allan, David Freiberg dei Quicksilver Messenger Service, e gli amici Graham Nash e Neil Young.
Come parecchie pietre miliari della storia della musica rock, il disco non fu ben accolto dalla critica.
Troppo avanti per le orecchie dei soloni della stampa? In ogni caso fu un'opera che è arrivata direttamente al cuore di generazioni di appassionati.

- "Music Is Love" nacque spontaneamente, dal nulla. Crosby imbracciò la 12 corde, iniziò a strimpellare qualcosa e Nash e Young lo seguirono a ruota.
"Take off your clothes and lie in the sun
Everybody's sayin' that music's for fun"

Ovvero come riassumere in 2 righe l'etica hippie.

- "Cowboy Movie" è una cavalcata nata un'improvvisazione in studio con Jerry Garcia e la sezione ritmica dei Grateful Dead.
Ed è una delizia sentire il bel vocione tenorile di Crosby accompagnato dalle visioni di Garcia, dalle potenti linee di basso di Phil Lesh e dal sottofondo fluido e scazzato del percussionismo del combo Mickey Hart - Billy Kreutzmann.

- "Tamalpais High (At About 3)" è la quintessenza del songwriting crosbyano. Nessuna parola, spazio solo alle emozioni e ai gorgheggi vocali che man mano si attorcigliano sempre più su se stessi. Inizia sospesa a mezz'aria, per poi finire dolcemente in balìa del continuo saliscendi sonoro fornito da Garcia, Kaukonen, Lesh e Kreutzmann.

- "Laughing" è il picco del disco. Crosby la scrisse pensando a George Harrison e a tutti coloro che pensavano che qualcuno potesse avere "la risposta". La pedal steel di Jerry Garcia, carica d'eco, e soprattutto il basso di Phil Lesh, sostengono sapientemente questo incanto musicale. Poi ci pensano le armonie vocali di Joni Mitchell a prenderlo per mano, e ad accompagnarlo in Paradiso mentre l'estasi sonora raggiunge il suo climax.

- "What Are Their Names" è un crescendo corale basato sulla fusione del chitarrismo nervoso di Young, di quello dal retrogusto jazzy di Crosby e di quello spettrale di Garcia. Come gran parte di questo disco, è una canzone nata da un'improvvisazione spontanea e dall'urgenza del momento.

- "Traction in the Rain" è una carezza di rarefatta dolcezza, con la autoharp di Laura Allan accordata in maniera aperta per sposarsi con la tonalità delle chitarre di Crosby e Nash.

- "Song With No Words (Tree With No Leaves)" è il continuo rincorrersi tra i vocalismi in scat singing di Crosby, le armonie di Nash, il tappeto sonoro sapientemente tessuto da Kaukonen e Rolie, e il pulsare della sezione ritmica di Casady e Shrieve.

- "Orleans" è un pezzo tradizionale francese riarrangiato ed eseguito unicamente da Crosby, con 2 voci e 2 chitarre sovraincise.

- "I'd Swear There Was Somebody Here" nasce da un esperimento vocale fatto in una camera eco. 6 tracce vocali fuse insieme per creare un'atmosfera sovrannaturale. E per un momento si ha l'illusione che lo spirito di Christine stia aleggiando nella stanza.
E' l'epitaffio del disco, e probabilmente dell'era del "peace and love".
Il tramonto immortalato in copertina è forse la metafora del fallimento del sogno di una generazione.
Un sogno semplice, forse troppo. Quello di cambiare il mondo con l'amore.
Ultima modifica di The Snake 12 il 11/12/2009, 21:39, modificato 1 volta in totale.

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Re: Recensioni storiche

Messaggio da ze_ginius » 12/12/2009, 18:00

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Titolo: Ten
Label: Epic Records
Released: 27 August 1991


La storia di Ten è anche, se non soprattutto, la storia del viaggio di una cassetta attraverso la Pacific Highway. Nel ’90 Jeff Ament (basso) e Stone Gossard (chitarra) giungono al capolinea del progetto dei Mother Love Bone, in seguito alla morte per overdose della voce del gruppo Andrew Wood. Gossard riallaccia i contatti con Mike McCready con il quale scambiava poster musicali addirittura prima ancora di prendere in mano una chitarra, i tre si ritrovano insieme a Matt Cameron (batteria Soundgarden) e realizzano in sala incisione cinque basi musicali, nella speranza di riuscire a trovare un cantante per il gruppo.
Il risultato del lavoro, una cassetta nota come Stone Gossard Demos ’91, passa per le mani di Jack Irons, primo batterista dei Red Hot Chili Peppers, fino ad arrivare ad un benzinaio ventenne di San Diego, leader di una cover band degli stessi RHCP con cui Irons giocava a basket. Il suo nome? Vedder, Eddie.
Leggenda vuole che Vedder, dopo aver ascoltato le basi, sia uscito di prima mattina con la tavola in mano per una lunga surfata sulle onde del Pacifico, nelle 24 ore successive scrisse in pieno impeto creativo i testi di “Alive”, “Once” e “Footsteps”. Gossard e Ament furono favorevolmente impressionati e invitarono Eddie a Seattle dove il cantante si presentò con il testo di una quarta base che sarebbe diventato “Black”.
Vedder, Gossard, Ament e McCready, insieme al batterista Dave Krusen, decisero di chiamare la band Mookie Blaylock, in onore del playmaker dei Nets e firmarono con la casa discografica Epic Records. Per problemi di copyright i membri della band decisero di cambiare il nome in Pearl Jam: secondo alcuni il nome deriva da una marmellata (Jam) a base di peyote preparata dalla nonna (Pearl) di Eddie. Il gruppo ha deciso di rendere comunque omaggio a Blaylock, usando come titolo per il primo album della band il numero del giocatore: Ten.

Per commentare questi fantastici 53 minuti di musica vorrei partire non dalla prima canzone dell’album (Once), ma dalla prima e estremamente significativa canzone che Vedder ha scritto per il gruppo.

Alive: in parte autobiografica, racconta quando la madre di Vedder comunicò al figlio che il padre biologico era morente senza che lui avesse mai avuta davvero la possibilità di conoscerlo. La confusione della madre, che rivede nel figlio il suo primo amore “You’re still alive” si unisce ai dubbi del figlio “Do I deserve to be?” di cui si percepisce il dolore e i turbamenti. Primo capitolo della trilogia nota come Mamasan che continua con il brano che apre effettivamente Ten...

Once: secondo episodio della trilogia, racconta la discesa nell’inferno della pazzia del ragazzo della prima canzone: divorato dalla rabbia, diventa un killer di prostitute. La saga è chiusa dalla canzone Footsteps che non appare su Ten (era un B-side del singolo Jeremy) e descrive i passi dei secondini che conducono il ragazzo alla sua esecuzione.

Even Flow: la canzone si apre con uno dei riff più conosciuti e travolgenti della band che ben si accompagna alla forza della storia di un vecchio homeless che sente avvicinarsi i freddi dell’inverno. Anche in questo caso sono presenti riferimenti alla pazzia, indotta stavolta da una vita di stenti ("Dark grin, he can't help, when he's happy looks insane… Even flow, thoughts arrive like butterflies. Oh, he don't know, so he chases them away"). Per quanto può valere una delle mie preferite per il ritmo e la straordinaria potenza delle immagini.

Why Go: riprende per temi e soprattutto ritmo Even Flow e narra la storia di una ragazza rinchiusa in manicomio dalla madre che l'aveva sorpresa a fumarsi uno spinello.

Black: struggente ballata su un amore finito, sicuramente uno dei punti più alti del disco per la bellezza del testo, colmo di immagini evocative. Il rifiutò del gruppo di girare un video divenne il simbolo del tentativo di evitare la ultracommercializzazione della band. Lo stesso Vedder mentre si trovava da solo su una spiaggia chiese ad un gruppo di straniti escursionisti, che certo non si aspettavano di trovarsi davanti l’autore della canzone, di smettere di cantarla.
"There are certain songs that come from emotion," he says. "It's got nothing to do with melody or timing or even words; it has to do with the emotion behind the song. You can't put out 50 percent. You have to sing them from a feeling. Like 'Alive' and 'Jeremy' to this day -- and 'Black.' Those songs, they tear me up." "Some songs," he says, "just aren't meant to be played between Hit No. 2 and Hit No. 3. You start doing those things, you'll crush it. That's not why we wrote songs. We didn't write to make hits. But those fragile songs get crushed by the business. I don't want to be a part of it. I don't think the band wants to be part of it."

Jeremy: ispirata al suicidio di un adolescente di fronte alla classe, coinvolge ancora il tema del difficile rapporto con i genitori ("Daddy didn't give attention, to the fact that mommy didn't care").

Oceans: richiama la passione di Vedder per il surf, dedicata alla moglie Beth.

Porch: musicalmente una delle mie preferite all’interno dell’album, ancora sulla fine di un amore distrutto dalle difficoltà della vita quotidiana ("Daily minefield, this could be my time by you… Would you hit me? Would you hit me?")

Garden: "I will walk...with my hands bound… I will walk... with my face blood… I will walk...with my shadow flag… Into your garden, garden of stone...yeah..." Secondo il mio parere una critica, ripresa in futuro con Society, verso la società moderna (I don't question, our existence… I just question, our modern needs) che ha trasformato il giardino dell’Eden in un giardino di pietra.

Deep: l’insopportabile dolore della dipendenza dalle droghe ("He sinks the needle deep") esplode anche grazie alle urla di Eddie

Release: il cerchio aperto con Alive si chiude con Release, lettera aperta di Vedder al padre ("Oh, dear dad, can you see me now… I am myself, like you somehow… I'll ride the wave where it takes me… I'll hold the pain...Release me...")

Ten è contemporaneamente esordio e Zenit del gruppo, quello che colpisce è la capacità di raccontare con onestà il passato dei membri della band, soprattutto di Vedder, attraverso un sound travolgente che subisce le influenze dichiarate della band (the Who, Neil Young, Jimi Hendrix, Led Zeppelin). In futuro i Pearl Jam regaleranno, con grande passione, altri capitoli di grande musica che però non toccheranno le vette e il sentimento di “urgenza” che questo capolavoro ha saputo offrire.
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Re: Le nostre recensioni degli album storici (per commenti u

Messaggio da The goat » 17/12/2009, 0:13

Dovevo fare Abbey Road, ma avevo troppe cose da dire in merito, quindi vado su qualcosa di più tranquillo... e poi devo fare onore alla mia canotta! :D

Electric Ladyland
Ottobre 1968
Registrato ai Record Palnt Studios di New York fra l'aprile e il giugno 1968.

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Due anni prima l'uscita di questo album, James Marshall Hendrix aveva incontrato in un piccolo club del Greenwich Village, Chas Chandler, ex bassista degli Animals, colui che sarebbe diventato il suo manager e produttore e che gli avrebbe fatto conoscere il batterista Mitch Mitchell e il basssta Noel Redding, futuri compagni della Jimi Hendrix Experience.
Sotto la guida di Chandler e insieme a Mitch e Noel, il nome di Hendirx divenne leggenda nel giro di pochissimo tempo, grazie a due incredibili dischi in meno di due anni e centinaia di perfomance strabilianti, con la consacrazione a Monterrey nel giugno del '67, quando la sua perfomance fece così scalpore che dopo di lui nessuno ebbe il coraggio di esibirsi.
Con l'arrivo del successo, Hendirx iniziò ad esplorare nuove idee per la sua musica, per svilupparla ulteriormente e perfezionare la sua continua e quasi maniacale ricerca musicale sullo strumento che lo aveva reso un'icona della musica mondiale: la chitarra.
La sua fama ed il suo mito erano all'apice, nei locali di Manhattan era solito esibirsi in jam impreviste ed imprevidibili con i più grandi interpreti della musica bianca e nera: Eric Clapton, BB King, JJ Cale, Muddy Waters, Miles Davis, e tutti facevano a gara per suonare con lui.
Ma tutto questo ad Hendrix non bastava. Il fuoco ardeva dentro di lui e della sua arte non era mai stato pienamente soddisfatto. Persino dei due album precedenti che avevano avuto ottenuto un notevole successo di critica e di pubblic, Jimi non era soddisfatto.
Cercava un suono diverso, più spessore artistico, una nuova concezione musicale. Era anche stufo di recitare il ruolo della rockstar, di dover stupire a tutti i costi: "I don't want to be a lown anymore..." si era ritrovato ad affermare in un'intervista a Rolling Stones.
Ed Electirc Ladyland, non c'erano dubbi, andava proprio in una direzione diversa, speciale.
Lo si potrebbe definire un concept album, anche se il tema ricorrente non è propriamente definito. Il soggetto musicale però sì. E lo si capisce dalle prime due canzoni:
And the Gods Made Love e Have You Ever Been (to Electric Ladyland) in cui Jimi si mostra anche geniale interprete dell'overture.
Ma è con i due pezzi successivi, Crosstown traffic e Woodoo Chile due pietre miliari del repertorio dell'artista, che si arriva al cuore del progetto.
Crosstown traffic è un brano della nuova era di Jimi, piacevole ma elaborato dove non c'è solo la sua chitarra a fare da padrone. Il suono è moderno, la melodia coinvolgente, il ritmo incalzante che rende bene l'inquietudine del brano.
In Woodoo Chile la chitarra blues di Hendirx gioca meravigliosamente con l'hammond di Steve Winwood. Il pezzo, che vede la partecipazione di Jack Casady dei Jefferson Airplane, dura oltre 15 minuti ed è uno dei blues più riusciti della discografia del chitarrista da Seattle.
A seguire c'è Little Miss Strange, pezzo firmato da Noel Redding, una gradevolissima composizione che ricorda molto i pezzi dei primi Who, anche se la chitarra di Hendirx dà al brano un tocco di assoluta originalità.
Long hot summer night vede Al Kooper al piano.
Come On (Let the Good Times Roll) è l'unica cover del disco, l'autore è Ealr King.
Gypsy Eyes, introdotta da un ormai famosissimo attacco di batteria, è passata alla storia perchè indicativa del perfezionismo maniacale che Hendrix aveva raggiunto durante le registrazioni di questo album e che subito dopo porteranno alla rottura della Jimi Hendirx Experience. Questa canzone, dedicata alla madre, fu registrata oltre 50 volte in 3 sessioni differenti finchè il chitarrista non fu assolutamente certo di aver raggiunto il risultato voluto.
La sofisticata Burning of the Midnight Lamp, aperta dal caratteristico wah-wah che Hendrix iniziava ad apprezzare proprio durante le registrazioni di Electric Ladyland e che in seguito diverrà uno dei suoi marchi di fabbrica, anticiperà molti brani del lavoro successivo di Jimi. In questa canzone Hendirx suona anche la tastiera.
1983... (A Merman I Should Turn to Be), più conosciuta semplicemente come 1983 è forse la canzone più psichedelica mai composta da Hendrix ed è la sua seconda canzone più lunga mai scritta. Descrive uno scenario post bellico in cui il protagonista e la sua compagna desiderano fare la loro ultima passeggiata attraverso il rumore del mare. 1983 viene considerata una delle canzoni più politicamente schierate di Hendrix, visto che il numero non rappresenta un anno, ma un articolo del Civil Rights Act del 1871, quello che tratta dei diritti delle minoranze.
La canzone sfocia in "Moon, Turn the Tides...Gently Gently Away, pezzo completamente strumentale in cui viene rappresentata la loro discesa nelle profondità dell'oceano.
Rainy Day, Dream Away e Still Raining, Still Dreaming sono due fra i pezzi più significativi dell'album. La Experience cede il posto a Buddy Miles, Mike Finnigan, Freddy Snmith e Larry Faucette per creare quell'atmosfera da club, con influenze jazz e continui cambi di sonorità, su cui troneggia la chitarra di Hendrix.
Con un attacco al fulmicotone parte House Burning Down, resa celebre dal ritornello ("Look at the sky turn a hell fire red, somebody's house is burnin' down down, down down") e dalle note di chiusura in cui la chitarra di Hendrix "imita" il crollo della casa, lo stesso virtuosismo che avrebbe poi usato a Woodstock per richiamare i bombardamenti in Vietnam durante la sua versione di "Star Spangled Banner".
La Experience torna per All along the watchtower uno dei capolavori del disco, che rispetto all'orginale di Dylan, diventa un'apoteosi psichedelica in cui mutano ritmo e riff chitarristico. L'ffetto è fantastico e anche oggi a distanza di 30 anni sembra una canzone splendidamente moderna.
Quando Bob Dylan ascoltò la cover, si lasciò andare ad un commento che farà storia: "Mi ha letteralmenten travolto" disse. "Questo ragazzo ha un talento incredibile, ha trovato delle cose in questa canzone che altre persone non si sarebbero neanche sognate di scorgere. E lui le ha sviluppate in maniera vigorosa".
In seguito lo stesso Dylan ammetterà che, ironia della sorte, è lui stesso che che quando si ritrova a suonare e cantare All along the watchtower lo considera un omaggio a Jimi Hendrix.
Chiude il disco un altro brano leggendario: Woodoo Child (slight return), con la celeberrima introduzione di chitarra con il wah-wah che diventerà uno dei cavalli di battaglia di Hendrix dal vivo.

Electric Ladyland è da molti giudicato il capolavoro di Jimi Hendrix ed è curioso che venga registrato ed esca al pubblico nel momento di crisi più profonda dell'Experience. Poco dopo Jimi troverà nuovi compagni d'avventura, fondando la Band of Gipsys.

Un paio di curiosità:
La prima versione dell'album nella versione inglese venne censurata a causa di diversi nudi in copertina, si ricorrerà così alla versione americana con la foto di Linda Eastman, futura signora McCartney.
Il titolo dell'album è una dedica di Jimi al suo specialissimo harem (le electric ladies, come le chiamava llui stesso), lo stuolo (un piccolo esercito come disse qualcuno) di donne e groupie che circondavano costantemente il celebre chitarrista.
Prendete Maradona.
Potenziatelo fisicamente, rendetelo un atleta.
Dategli il destro.
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Re: Le nostre recensioni degli album storici (per commenti u

Messaggio da frog » 18/12/2009, 22:04

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Uffa! Uffà!

Edoardo Bennato

Pubblicato per la Dischi Ricordi nel marzo del 1980



Eccovi servito l’uomo contro del cantautorato nostrano nel suo album più scomodo e per questo mio preferito. Siamo agli albori del craxismo, della  Milano da bere, del disimpegno e dell’elettronica. I Righeira e Sandy Marton stanno per salire alla ribalta, ma prima, un ultimo sussulto, un colpo di coda del paladino della 12 corde. Presto anche lui si piegherà a logiche di mercato inzozzando il suo magico sound made in Campi Flegrei per convertirsi agli anonimi pattern delle diavolerie tipicamente anni ottanta.
Reduce dal trionfo anche in termini monetari di Burattino senza fili, Edoardo Bennato, si prende una pausa. La sua splendida opera ispirata alla favola di Collodi, giunge dopo anni di gavetta alla sua quinta fatica cantautorale. Gli anni settanta li ha passati studiando architettura e girando l’Italia, lui napoletano verace emigrato per studio a Milano, con chitarrone, armonica a bocca, kazoo e tamburello, esplodendo rabbia ed energia in quantità industriale. Quella pausa quindi sembra meritata, ma per chi sta alla Ricordi a contare i soldi, non va bene, c’è da cavalcare l’onda, bisogna buttarsi sul mercato con qualcosa di nuovo. Dal 1977 si giunge così al 1980 quando Edo porta a compimento ciò che essi vogliono, un album ancora ispirato ad una favola. Questa volta è  Peter Pan l’oggetto, ma poche settimane prima dei voli di Campanellino, Bennato se ne esce con questo concentrato di sarcasmo, ironia, garra e rock and roll. Tutte le regole del buon discografico vengono prese a randellate nei denti, il politicaly correct viene sotterrato sotto grida, versi, insulti e alla fine anche un bello… sputo ! Si parte con un canto gregoriano, li belli gladioli ove in maniera solenne si avverte l’incuriosito ascoltatore che la pazienza è finita e l’intonare con lui il canto non vi salverà dalle sue invettive. Il suono di una moneta che scende nel juke-box,  introduce appunto, Sei come un juke-box,  lo stile classico rock and roll non ammorbidisce per nulla la pesante critica al carrozzone musicale italico, bei tempi comunque quando con 100 lire si poteva scegliere cosa ascoltare in un bar, ma questa è un’altra storia. L’atmosfera da Happy Days musicalmente parlando, prosegue con Così non va, Veronica, che potrebbe essere riciclata dalle parti di Arcore, ma in cui gli strali del folletto partenopeo si indirizzano ad una compagna di vita dalla polemica facile. La prima facciata si chiude con una simil improvvisazione tantrica, dove la nessuna voglia di sottostare agli ordini di scuderia viene ancora una volta ribadita dal nostro. Ammetto che, ad ogni ascolto, sul “Gighigighi” di Bennato parto per mondi lontani dondolando come in preda a sostanze non dichiarata alla dogana.
L’apertura della facciata B ci porta ad un brano sempre polemico, Che combinazione, sempre ispido, sembra di essere catapultati nel Taxi con De Niro, la rabbia trasuda da ogni nota con un ispirato sax suonato da Enzo Avitabile, il finale stuzzica l’appetito, ma molto deve ancora venire. Restituiscimi i miei sandali nasce dolce e leggiadra con un educatissimo Edoardo Bennato pronto a elargire perle di saggezza verso colui il quale s’è macchiato di un vile peccato, il titolo parla chiaro. La voce di Bennato arriva a picchi di sconfinata follia dalla quale sembra impossibile il ritorno, ma questo è il regno dell’assurdo, la favola di quest’album è un incubo metropolitano condito in salsa tropicale dove lo scugnizzo che faceva il bagno a Nisida schizza come una scheggia impazzita da un polo all’altro della sua mente, godiamocelo finché dura. A Licola è una pausa a ritmo di beguine, che ci fa riprendere fiato prima del gran finale, un giro sulla giostra dell’inconsueto a braccetto con il grottesco, un Animal House Spaghetti, con tanto di anelito, sfociante nel disco che salta come chi è pratico di vinile sa. Tutto per buttarsi nell’apocalittico finale, duro, incalzante in stile Ramones, suonato con la collaborazione dei Gaz Nevada e il fratellino minore, il brano che da il titolo all’album ci spiega da dove vengono Bin Laden, la guerra preventiva, Saddam e i talebani con una vagonata di anni in anticipo.
Lunga vita all’uomo contro che purtroppo si piegò.
Ebbene si: son ancor chi

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Re: Le nostre recensioni degli album storici (per commenti u

Messaggio da ze_ginius » 19/12/2009, 0:27

Alla Corte del Re Cremisi - L' Inizio della "Monarchia Progressive"

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Il 1969 fu un anno di grandi cambiamenti. Fu l’anno della tragica protesta di Jan Palack, l’anno dello sbarco dell’uomo sulla luna, l’inizio, per il nostro paese, degli anni di piombo con la strage di Piazza Fontana. Fu, in ambito musicale, l’inizio della “Monarchia Progressive”.

Con “Progressive Rock” possiamo etichettare un movimento che, pur nella diversità delle sue componenti, ha come substrato comune la volontà di conferire al rock classico uno spessore artistico. Il cambio di paradigma è epocale: i canoni tradizionali del rock vengono stravolti. La canzone con un ritornello come punto di riferimento ricorrente scompare, in favore di brani spesso molto lunghi, che talvolta presentano al loro interno variazioni di genere importanti. Gli arrangiamenti sono “barocchi” e coinvolgono una pluralità di strumenti come organi, tastiere
(organi e mellotron), strumenti a fiato e addirittura archi. La musica si svincola dalla realtà, non ha altro messaggio se non quello della ricerca dell’estetica, i testi sono ermetici e le immagini che suggeriscono sono fantastiche, proprie di una dimensione quasi onirica.

E’ difficile fissare una data precisa per l’inizio del periodo Progressive. Molti ne identificano l’inizio con il 10 Ottobre 1969 data di uscita del primo ed epocale disco dei King Crimson: “In The Court Of The Crimson King”. La band, un captolo di straordinaria creatività e discontinuità nella storia della musica, nasce per volontà dell’eclettico Robert Fripp (chitarra) insieme a Greg Lake (voce/basso), Michael Giles (batteria), Ian McDonald (fiatista) e Peter Sinfield (testi).

“In The Court Of The Crimson King” è un disco che colpisce già prima che si cominci ad ascoltarlo: non si può infatti restare indifferenti di fronte all art work in copertina. Il dipinto, ad opera di Barry Godber, rappresenta il volto sconvolto dell’ uomo schizoide del 21mo secolo. Godber, che era un programmatore di computer, morì l’anno successivo a soli 24 anni e questa copertina (che qualcuno ha molto efficacemente definito “L’urlo di Munch del Progressive”) fu il suo unico lavoro.

Analizziamo ora nel dettaglio questi 43 minuti di musica:

21st Century Schizoid Man: la durezza della copertina è ripresa dalla prima traccia. La musica e la voce distorta di Lake disegnano un futuro duro, di guerra (il verso “Polititians' funeral pyre, Innocents raped with napalm fire” è un richiamo alla guerra del vietnam), dove l’arte e l’innocenza (“Poets starving, children bleed”) saranno distrutte da un artiglio di ferro (“iron claw”).

I TalK To The Wind: le atmosfere cupe e schizofreniche cedono il posto alla malinconia evocata dal flauto di Ian McDonald. Tema centrale è la conversazione tra due uomini: uno è parte della società, l’altro (the late man) l’ha rifiutata (“I'm on the outside looking inside, What do I see, Much confusion, disillusion, All around me”). Il rifiuto della società lo ha lasciato, la sua consapevolezza dei mali della società è inutile, la maggioranza delle persone sono insensibili al suo messaggio e il suo unico interlocutore è il vento.

Epitaph: quasi senza soluzione di continuità si entra nella terzo capitolo del disco. Epitaph funge da collegamento tra le prime due canzoni del testo, che descrivono il futuro, con le ultime due, che invece sono ambientate in un lontano passato. Paradossalmente la struttura di questa canzone segue il percorso inverso, dal tempo passato si arriva alla descrizione di una società in rovina (“The fate of all mankind is in the hands of fools”) fino ad arrivare all’immagine di un tragico futuro (“Confusion will be my epitaph”)

Moonchild: ambientata in un passato quasi sospeso, è carica di immagini sognanti nelle prime tre fantastiche strofe, prima di lasciarsi andare ad un lungo segmento strumentale della durata di ben 10 minuti. E’ questa la parte a cui risulta più difficile approcciarsi insieme ai suoni cupi e “schizofrenici” di “21st Century Schizoid Man”. Il passaggio strumentale in questione è una metafora della notte, una notte popolata d’immagini sfuggenti, l’ultimo verso della canzone è eloquente “Playing hide and seek, with the ghosts of dawn, waiting for a smile from a sun child”

In The Court Of The Crimson King: l’attacco dell’ultimo capitolo del disco risveglia dal torpore strumentale di Moonchild e trasporta in un lontano passato. L’alba è arrivata (“the rusted chains of prison moons are shattered by the sun”), il viaggio volge alla conclusione, siamo giunti alla corte del “Re Cremisi” (Federico II di Svezia in persona). La musica è maestosa, al pari della voce di Lake e del testo di Sinfield, carico d’immagini evocative, una simbologia talmente carica da essere quasi stordente.

Dopo l’uscita dell’album le strade dei membri del gruppo si divisero, con il solo Fripp a portare avanti il progetto King Crimson. Questo lavoro così importante per quello che sarà il genere Progressive è stato il risultato di un sodalizio tanto breve quanto fortunato, una "congiunzione astrale" in grado di produrre una delle pietre miliari della musica.
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Re: Le nostre recensioni degli album storici (per commenti u

Messaggio da L-Magic » 07/01/2010, 18:01

Fabrizio De Andrè - Tutti morimmo a stento

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E’ il mese d’agosto del 1968 e un indaffaratissimo Fabrizio De Andrè si appresta ad iniziare le registrazioni del suo secondo album: Tutti morimmo a stento.
Si presenta così accompagnato dal maestro Giampiero Riverberi, il produttore Antonio Casetta ed un’orchestra di ben ottanta elementi agli studi di via Tiburtina a Roma, pronto a sfruttare l’entusiasmo derivato dai suoi singoli e dal suo primo album, risalente all’anno precedente.
De Andrè affermerà che l’idea di produrre un album accompagnato da un’orchestra gli venne dopo aver ascoltato Days of Future Passed, dei Moody Blues, realizzato insieme alla London Symphony Orchestra.

Tutti morimmo a stento è il primo esempio di concept album in Italia, infatti è interamente incentrato sul tema del dolore, l'emarginazione, la morte. Si capisce così fin dagli esordi la vicinanza del cantautore agli individui più deboli della società, pregiudicati ed emarginati da essa.
L'album è composto di vari brani separati da tre intermezzi e tutti nella stessa tonalità (in si minore, come ricordato anche sulla copertina), la cui stesura musicale fu affidata a Giampiero Reverberi, grandissimo maestro della nostra musica e amico di Fabrizio. Reverberi fece un lavoro fantastico, riuscendo a legare tutti i brani anche musicalmente con il senso di angoscia presente nelle parole cantate dalla profonda voce di De Andrè.

L'album esordisce con uno struggente pezzo di più di 7 minuti, il Cantico dei drogati, il cui testo fu tratto da una poesia di Riccardo Mannerini, poeta semicieco che fu maestro di pensiero e amico di De Andrè prima di togliersi la vita nel 1980. La poesia di Mannerini, Eroina, fu rivisitata da Faber con l'aiuto proprio dell'autore, in modo da poter essere meglio musicata. Il risultato è un vero capolavoro: il ritmo lento e struggente accompagna alla perfezione il canto di Faber e rende perfettamente il dolore che trasmette il testo.
Un attimo di tranquillità si ha con il Primo intermezzo, che comunque lascia sempre il velo di tensione presente in tutto l'album.
Si arriva così alla Leggenda di Natale, in cui il canto di De Andrè si fa più morbido, e ciò contribuisce a creare la malinconia e l'inquietudine derivata anche dall'arrangiamento di Reverberi e dalla tremenda storia narrata: una ragazzina la cui spensieratezza viene spezzata da un tremendo atto di pedofilia.
Si arriva così ad un altro capolavoro di Faber, la Ballata degli impiccati, passando per il Secondo intermezzo. Nella Ballata degli impiccati De Andrè si immedesima in dei condannati a morte, che ricordano che il prezzo fu la vita per il male fatto in un'ora. Questo brano è uno dei pochissimi all'interno della sua discografia in cui Faber esprime la sua idea rabbiosamente, senza la sua solita pacatezza. Anche il ritmo si fa più incalzante rispetto ai precedenti pezzi, dando proprio l'idea di una rabbia non rassegnata, a differenza di quella di un drogato o di una ragazzina molestata.
Il successivo pezzo, Inverno, prende il titolo da quello che, metaforicamente, rappresenta il dolore. Dunque la tristezza si alterna alla serenità esattamente come l'inverno si alterna all'estate, e su questo si incentra il testo. Ma tu che vai, ma tu rimani, vedrai la neve se ne andrà domani, esordisce, ma poi, naturalmente, prevale il solito pessimismo: Ma tu che stai, perchè rimani? Un altro inverno tornerà domani, la tristezza tornerà sempre.
La musica di questo brano è malinconica e fredda, un'altra prova della bravura del maestro Reverberi, che per tutto l'album è stato in grado di riprodurre in musica le parole di De Andrè.
Ed ecco arrivare il pezzo probabilmente più singolare dell'album, Girotondo, in cui al canto di De Andrè si alterna quello di un coro di bambini. Faber ora parla di guerra, con i bambini che, una volta resi conto che nessuno ha fatto nulla per evitare la guerra che è ormai ovunque, rimangono soli e impazziscono, iniziando anche loro a farsi la guerra. Il cantautore vuole probabilmente far notare come la guerra sia nell'indole dell'uomo, e mai si riuscirà ad avere la pace in Terra.
Ci si avvicina al termine di questi 33 minuti di pessimismo e tristezza con il Terzo intermezzo, che con la sua malinconia ci catapulta direttamente al Recitativo e alla Leggenda del Re infelice, l'uno intersecato nell'altra. La seconda narra la storia di un re, che pur avendo tutti i beni non riusciva a trovare la felicità: il più classico degli esempi per dire che i beni materiali non fanno la felicità, frase che nella società odierna sembra purtroppo essere stata dimenticata.
Nel Recitativo De Andrè recita la parte dei personaggi dei suoi album invocando la pietà dall'alta società, coloro che hanno gloria e rispetto.
Questi abbiano dunque pietà verso coloro che sembrano più deboli, perchè chissà mai che all'ultimo minuto non vi assalga il rimorso ormai tardivo per non aver pietà giammai avuto.
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Re: Le nostre recensioni degli album storici (per commenti u

Messaggio da Mike » 22/01/2010, 12:38

Storia di un impiegato
Fabrizio De André


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Non è sicuramente il suo album migliore. Non è piaciuto alle radio, alla critica e non è piaciuto poi molto neanche a lui. Ma Fabrizio De André nella sua Storia di un impiegato ci confida un’altra vita che meritava di essere raccontata, ci ricorda altri tempi non troppo passati, e dipinge una società italiana non così distante da quella di oggi. Eppure era il lontano 1973, Faber era reduce da uno dei suoi più grandi successi (Non al denaro, non all’amore né al cielo), ma la voglia di cantare ciò che rimaneva di un sessantotto andato a male e la sensazione di sfiducia e di distanza che infondeva la situazione politica italiana di quegli anni doveva essere troppo forte per non valere la pena di questo tentativo. Un tentativo poi fallito, quello di rimanere lontano dalla pericolosità di giudizi personali e di prese di posizioni apolitiche sufficientemente forti quanto semplici ma profondamente avvertite, a volte quasi banali (). Scritto a quattro mani con Giuseppe Bentivoglio (trai due si consumerà qui la loro ultima collaborazione) e con Nicola Piovani alla cura degli arrangiamenti musicali, le nove tracce di questo concept album raccontano come da titolo le vicende di un impiegato che ormai trentenne prova a rivisitare in chiave solista lo spirito che animò la protesta dei giovani studenti del suo tempo contro le ingiustizie del potere economico e politico.

Introduzione è il breve prologo alla storia che si andrà narrando: l’atmosfera inizialmente onirica è resa dal rintocco di campana e dal fischiettio di un motivetto che ritornerà poi nel corso dell’album; anche il successivo accordo di chitarra verrà ripreso più volte durante le vicende dell’impiegato, mentre il breve testo, invece, lascia soltanto vagamente intendere i riferimenti alla lotta studentesca che si faranno man mano sempre più chiari.
Canzone del maggio è ispirata ad un canto di lotta del maggio sessantottino francese di Dominique Grange dal titolo Chacun de vous est concerné: sopra una melodia facile e scanzonata, alleggerita anche dall’intrusione di una spensierata fisarmonica, il testo, volto per la prima e penultima volta nel corso dell’opera nella prima persona plurale, è un ricordo triste e rabbioso delle rivolte studentesche ed una critica, oltre che una rivendicazione, nei confronti di quanti ritenevano gli episodi un gioco da niente, sentenziando la colpevolezza di quanti se n’erano lavate le mani troppo facilmente.
La bomba in testa segna la presa di posizione individualista del protagonista suscitata dal constatare le differenze che lo separano dagli studenti, tra cui quella dell’età è solo la prima ma non la più importante. La musica si fa incalzante, l’obiettivo è quello di trasmettere il travaglio che porta alla decisione di combattere da solo la propria battaglia, non sentendosi più in grado di potersi unire alla collettività: e per la sua lotta avrà come unica arma il tritolo con il quale ambisce a svergognare finalmente i detentori del potere, immaginati come ad un ballo in maschera a cui sogna di essersi invitato, preludio della canzone successiva.
Al ballo mascherato l’intro al pianoforte dal suono onirico suggerisce come le congetture nella mente del protagonista si stiano facendo sempre più opprimenti e oscure, ma è solo un momento: la musica torna allegra e sferzante come mai nel corso dell’album, sottofondo per la descrizione del ballo e dei suoi partecipanti, tra i quali ritrova anche i suoi genitori, dando conferma dei vaneggiamenti del suo sognare.
Sogno numero due si apre con un flauto che richiama, per la prima volta nel corso dell’opera, la melodia che chiude l’Introduzione; quando la musica si interrompe, Faber recita il monologo del giudice immaginario davanti al quale si ritrova l’impiegato durante il suo secondo sogno: come se avesse già compiuto il suo gesto, viene a conoscenza di essere sempre stato osservato dal potere fin dalla sua nascita, viene ringraziato per il contributo fornito alla restaurazione dello stesso e gli è concesso di scegliersi la pena per il reato di essersi sostituito a chi spettava il compito di giudicare.
La canzone del padre sancisce la condanna di questo processo immaginario. Dopo un attacco soffuso e malinconico, il patto tra l’impiegato e il giudice dà il via alla descrizione della sua pena: rivivere la vita del padre, una vita che avverte come vuota e sprecata nella tristezza di un amore della moglie ormai sempre più lontano e la ripetitività di lavoro e affetti di certo non appaganti. Ma il sogno finisce e quando si risveglia è ormai pronto per passare ai fatti.
Il bombarolo segna il punto di non ritorno della storia: ormai il protagonista è nauseato dell’inutilità delle parole dei pensatori di quel tempo () ed è ormai convinto delle sue ragioni rivoluzionarie e del suo metodo (). Così prepara il suo solitario attentato alla sede del Parlamento, consapevole di un futuro non facile da latitante pronto ad attenderlo, senza badare troppo ad un probabile fallimento (l’esplosione infatti coinvolgerà soltanto un chiosco di giornali) e alla conseguente prigionia. La melodia riprende per la seconda volta gli accordi dell’Introduzione, suggerendo ancora come sia questo il pezzo chiave dell’intero album: la riflessione lascia lentamente spazio all’azione che infine avviene quasi senza far rumore. L’ultima strofa accenna per la prima volta alla donna della sua vita, che incontra sulle prime pagine dei giornali esposti dall’edicola vittima accidentale dell’attentato, facendo da anticipazione alla canzone successiva.
Verranno a chiederti del nostro amore è una ballata romantica, apparentemente autonoma dal resto dell’album, unico pezzo a poter vivere di vita propria e inserirsi nel repertorio concertistico del cantautore. Invece è perfettamente incastrata nella storia come dolce e al tempo stesso cruda lettera dedicata alla donna abbandonata già prima del suo arresto, alla quale chiede di non parlare con troppa facilità della loro storia d’amore e si raccomanda con premura di fare attenzione per il proseguo della sua vita, consigliandole (nella meravigliosa frase conclusiva ) di essere finalmente padrona di sé stessa.
Nella mia ora di libertà riprende per l’ultima volta i ritmi dell’Introduzione, nonché gli accordi della Canzone del maggio, stavolta ancora più lenti e rilassati. Le parole accompagnano sin da subito la musica e la prima decisione del prigioniero è quella di rinunciare alla sua ora di libertà; dopodiché è pronto per affrontare il vero giudice e le facce della gente accorsa al processo: tra di esse ritrova il viso di lei, di cui riesce a immaginare le risposte che darà alle domande degli altri e a quelle proprie. Infine, dopo alcuni versi di denuncia verso il potere e il senso di giustizia, arrivano anche l’abbandono all’individualismo, la riconciliazione con una collettività concretizzato con il ritorno all’uso della prima persona plurale e l’ultimo richiamo alla Canzone del maggio: .

Se per una parte degli ascoltatori questo lavoro potrà sembrare quanto meno deludente per l’assenza di singoli da custodire nella memoria (ad eccezione ovviamente di Verranno a chiederti del nostro amore e per i più affezionati anche de Il bombarolo e della Canzone del maggio); agli amanti delle storie raccontate attraverso un intera opera musicale, l’ascolto di quest’album regalerà sicuramente qualcosa, quantomeno un'esperienza in più.
Gerry Donato ha scritto:D'ora in poi andrebbe chiamato in tutto il forum Mike Desencadenado.
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Re: Le nostre recensioni degli album storici (per commenti u

Messaggio da ze_ginius » 16/08/2010, 22:34

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Debuttare con un capolavoro come Funeral, confermarsi con un secondo disco solido come Neon Bible e rilasciare una media di un disco ogni tre anni, ha molto alimentato la curiosità e le aspettative sull’ultimo lavoro degli Arcade Fire: The Suburbs.

Certamente il collettivo si trovava a un bivio: appoggiarsi ai fortunati registri dei primi lavori o imboccare la strada della sperimentazione.Il risultato è una via di mezzo. Sono presenti alcuni elementi che da sempre hanno caratterizzato la band: primo tra tutti la presenza di un fil rouge che unisce l’intero album e consiglia di analizzare il disco nel suo complesso piuttosto che canzone per canzone. Quello che in Funeral era la malinconia e in Neon Bible l’atto d’accusa verso il materialismo della società moderna in The Suburbs diventa l’analisi dei conflitti che popolano una città: una fazione contro l’altra (The Suburbs), adulti contro bambini (Ready To Start), rassegnazione e fuga contro rabbia e insurrezione (Suburban War), intelligenza umana contro intelligenza artificiale (Deep Blue). Addirittura capita che lo stesso tema sia esaminato, con una scelta molto azzeccata, da due punti di vista diversi come avviene nel caso di: Half Light I e II e Sprawl I e II. La ripetizione quasi estenuante dello stesso set di parole “car” “town” “suburbs” “drive” “streets” “dark” “road” “kids” dipinge una società opprimente da cui è difficile scappare, d’altra parte lo stesso Win Butler ha ammesso più volte l’ammirazione per i lavori di George Orwell e ha citato Brazil come suo film preferito. Altro elemento che fa da ponte con i precedenti lavori sono gli arrangiamenti con archi e i crescendo strumentali, entrambi tuttavia presenti con meno forza e intensità emotiva rispetto a quanto visto con Funeral. Quello che prima era l’essenza stessa del disco ora può essere percepito come una copia un po’ sbiadita, che cattura ma non incanta e pecca forse di autoreferenzialità.

The Suburbs non è privo di elementi di novità, a partire da numero delle canzoni: ben 16 contro le 10 di Funeral e le 11 di Neon Bible per una durata complessiva di 65 minuti, considerevolmente superiore a quanto proposto nei precedenti lavori. Il suono della band, pur in presenza delle influenze già riscontrate nei primi dischi e ammesse dallo stesso Butler e dalla compagna Regine Chassagne (a vario titolo vale la pena citare David Bowie, Echo & The Bunnyman, Bruce Springsteen, Cure, Talking Heads, Radiohead e Joy Division) si concede escursioni in generi finora sconosciuti agli Arcade Fire: soprattutto synth-pop (Sprawl II) ma anche punk (Month of May) e accenni di noise e shoegaze.

Il risultato finale è buono, nonostante alcune canzoni sotto il par spezzino il flow del disco che patisce anche i frequenti cambiamenti di registro. Il tema ricorrente resta peraltro molto interessante e sviluppato con testi al solito molto curati e con immagini decisamente evocative.
Gli Arcade Fire sembravano essere l’anello di congiunzione tra musica indie e mainstream, se nei primi dischi tuttavia questo equilibrio pendeva decisamente a favore dell’anima indipendent, in questo lavoro, che promette di lanciare la band in testa alle classifiche, gli ingredienti che mi avevano tento fatto apprezzare la band si ripresentano in maniera annacquata patendo l’indecisione (o forse la decisione consapevole) tra l’abbandonare le sicurezze ottenute e abbracciare un cambiamento solo in parte cercato e ottenuto.
Ultima modifica di ze_ginius il 17/08/2010, 13:06, modificato 1 volta in totale.
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Messaggio da shilton » 26/03/2013, 13:12

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Re: Le nostre recensioni degli album storici

Messaggio da PENNY » 23/11/2018, 12:50

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