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da joesox » 13/04/2013, 16:29
Esistono luoghi nati per qualcosa. Qualcosa che magari puoi trovare anche altrove, ma che lì, soltanto lì, assume davvero la dimensione di “casa”.
Boston è la “casa” della maratona. Non la più sfavillante (in questo New York non ha eguali), né la più gratificante (i percorsi di Chicago e Berlino, per esempio, per fermarci alle Major, consentono prestazioni migliori), ma quella dal richiamo ancestrale. Quella col focolare, dove si raccontano le storie ai nipoti.
Se New York è un centro commerciale, Boston è il negozio di fiducia. Se a New York trovi l’ultimo grido di ogni articolo, a Boston cerchi il tesoro vintage, la perla nascosta nella conchiglia.
A Boston non vengono solo i runners, vengono i maratoneti. Quelli fatti e finiti. A Boston, nella prima delle tre “onde” di partenti, respiri ancora l’orgoglio di esserci, di esserti “guadagnato” l’evento ottenendo il severo tempo di qualifica, di essere uno dei “prescelti”.
Nella casa della maratona la linea d’arrivo non è una striscia per terra, è un simbolo che resta incastonato nell’asfalto 365 giorni l’anno.
Nella casa della maratona si è tenuta l’edizione più antica, nel 1897, e quella più veloce di sempre, nel 2011, quando a dispetto del percorso collinare, grazie al vento a favore e a condizioni meteo irripetibili (omaggio alla grandezza del luogo), Geoffrey Mutai chiuse in 2h03’02. Il tempo non fu omologato dalla Iaaf, ma venne pagato dagli organizzatori come record del mondo a tutti gli effetti. “Vento a favore? Eccessivo dislivello tra partenza e arrivo? Qui si corre da 115 anni e nessuno si è mai sognato di poter fare questo tempo su un percorso così duro. Il premio lo paghiamo, se c’è qualcuno che deve cambiare le regole, cercatelo in Federazione”.
Ma Boston non è soltanto la casa della maratona e dei maratoneti. E’ anche e soprattutto la casa delle maratonete.
E’ stato qui che, al quinto miglio, nel 1967, si scoprì che fra i partecipanti c’era una donna mascherata da uomo, Kathy Switzer. Un commissario di gara, Jock Semple, si lanciò lungo il percorso per strapparle il pettorale, trattenuto dal compagno di lei, Tom Miller. La foto fece il giro del mondo. Il dibattito che ne seguì mandò in frantumi il dogma della partecipazione solo maschile.
Nel 1972 la Switzer, stavolta senza trucchi e fasciata in un completino bianco e nero, potè correre sorridente e priva di ostacoli 4 miglia della prima maratona sdoganata alle donne. Per la cronaca la vinse Nina Kuscsik, in 3h10’26’’, tempo di tutto rispetto che le valse il 410° posto assoluto nella competizione, davanti a diverse centinaia di uomini.
Da allora il campo dei partecipanti è equamente suddiviso fra uomini e donne, che qui corrono in percentuale straordinariamente maggiore rispetto a quanto noi italiani siamo abituati a vedere.
Ma uomini o donne che siano, ogni anno i runners che affrontano le 26,2 miglia che da Hopkinton, attraverso Ashland, Framingham, Natick, Wellesley, le quattro colline di Newton (con la famosa “spaccacuore”) e Brookline portano a Boston, sono pienamente consapevoli di giocarsi la chance di entrare in una leggenda.
Quando ciò che resta di te transita in Beacon Street, Kenmore Square e Massachusetts Avenue, gira a destra in Hereford Street e imbocca Boylston, e quando vedi all’orizzonte Copley Square, la John Hancock Tower e le insegne gialloblù del traguardo, tutti i pezzi tornano a posto. Sai che il tuo nome di lì a poco sarà custodito nei sacri registri della Boston Athletic Association, al 40 di Trinity Place, 4° piano, e che lì resterà scolpito per sempre.
Lunedì, nell’edizione numero 117, proverò a scrivere il terzo capitolo della mia personalissima storia d’amore con questa città. Per mia moglie sarà il debutto, a queste latitudini.
Insieme, felici, consci di essere parte di un grande evento, che cercherò di raccontarvi giorno dopo giorno in questo blog.
Perché, come dicono qui in Massachusetts, “There are many races, but only one Boston Marathon. The big one”.
Antonio Bacci
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