"There Are No Cinderellas"- College Football 2014
Inviato: 28/08/2014, 22:56
Qualche anno fa girava sui canali americani uno spot della Jordan che mostrava differenti spezzoni di squadre universitarie- di basket e football- impegnate in quelle che apparivano faticose e tarde (nel senso di tarda notte) sessioni di allenamento. C’era Boise State, a provare una “Statue of Liberty” alla luce dei riflettori; c’era un giocatore di basket ripreso con le mani sui fianchi nel mezzo di una sessione di sprint in solitaria; c’era l’NC State dei miracoli di Jim Valvano; e c’era anche Appalachian State, ancora sull’onda mediatica della storica vittoria su Michigan del 2007. E poi- subito dopo che le lancette di un orologio scoccassero la mezzanotte- un messaggio. Breve. Chiaro.
“There are no Cindarellas”
Non ci sono Cenerentole. Non esistono. Come a dire: nulla accade per caso. Gli upset non sono frutto di casuali ed incontrollabili circostanze. I trofei, gli anelli, le coppe, le medaglie non sono improvvisi e generosi regali del Caso. No.
C’è di più. Molto di più.
Gli highlight di un sabato pomeriggio sono figli legittimi di una sessione in sala pesi di Febbraio. Un touchdown nello Sugar Bowl è la naturale conseguenza di un extra sprint un pomeriggio afoso di luglio quando ogni lembo del tuo corpo- per non dire ogni millimetro di materia grigia del tuo cervello- ti dicevano, suggerivano, imploravano di smettere, magari di tornare a casa e bere una birra con gli amici. La gloria- quella gloria che tutti ti invidiano e di cui forse alcuni vorrebbero vederti depredato- è tutt’altro che un prodotto pre-confezionato del Destino, tutt’altro che priva di consistenza: ha un odore ed è quello del tuo sudore, ha un prezzo ed è quello di tutto ciò che hai sacrificato.
“There are no Cindarellas”
Accendiamo la televisione, ascoltiamo la radio, leggiamo i giornali, controlliamo il nostro social network di preferenza e ci sentiamo dire- costantemente, insistentemente- che siamo meritevoli di qualcosa, che siamo belli, forti, intelligenti, fighi sufficientemente per meritarci quella vacanza, quella nuova TV, quel telefonino di ultima generazione. Tutto senza discriminare tra chi ci mette il cuore, l’anima, il sudore e chi attende lo svolgimento del proprio Destino passivamente e pavidamente.
Self-entitlement, come direbbero gli americani.
Poi invece capita a quelli come me- che hanno deciso di fare dell’educazione di giovani uomini e donne una ragione vita oltreché una professione- di dover pazientemente e tenacemente smontare queste costruzioni sociali e psicologiche e ricordare a coloro che domani saranno la materia prima della nostra società che no, nulla ci spetta di diritto, nulla ci è concesso per grazia, nulla può essere considerato nostro permanentemente per diritto. Tantomeno il successo, tantomeno la gloria.
E non c’è scuola migliore per attuare questa rivoluzione di pensiero che un rettangolo di erba, pads e un pallone ovale.
Football.
Sudore. Disciplina. Rispetto dell’autorità. Sacrificio. La squadra prima di sé stessi. E- soprattutto- totale, completo disinteresse per lo status sociale, il colore, il cognome degli individui.
Football.
Pura adrenalina nelle ore immediatamente prima del kickoff. Tensione, paura di sbagliare, altalena emotiva durante. Dolorosa frustrazione o contagiosa, raggiante soddisfazione dopo.
Football.
Consapevolezza di essere sullo stesso, identico piano di tutti gli altri e di avere una sola strada percorribile verso il successo: il lavoro.
Le Cenerentole non esistono. O meglio, esistono; ma nelle menti di coloro che si sentono vittime innocenti del destino, di coloro che vogliono annusare l’odore inebriante della vittoria senza prima aver sentito quello acre e nauseante del sudore. Ma certamente le Cenerentole non esistono nei cuori e nelle teste dei vincenti, di chi arriva prima all’allenamento e va via ultimo, di chi snobba una festa per ripassare il playbook, di chi si sveglia alle 5 della mattina per arrivare a scuola alle 6 e allenarsi in palestra prima del suono della campanella. La parola “Cindarella” non era nella mente di Michael Jordan al momento del tiro decisivo contro Georgetown nella finale NCAA del 1982, o in quella di Corey Lynch nell’attimo in cui bloccava l’ultimo field goal in quella che è ancora oggi ricordata come la più grande “sorpresa” nella storia del College Football un pomeriggio di tardo agosto ad Ann Arbor, Michigan.
Le parole, i pensieri erano altri. Cose come two-a-days, gassers, squats, repetitions, film sessions. Il successo, la gloria appartengono a coloro che li scelgono, che decidono di prendere in mano il proprio destino e plasmarlo a loro immagine e somiglianza invece di lasciare che il contrario accada. Questo è il football, questa è la vita. E allora che Dio benedica questo sport perché oltre ché farci divertire per cinque mesi all’anno ci ricorda- se abbiamo intenzione di ascoltare, almeno- di cosa sia il successo e quale sia la differenza tra vincenti e perdenti.
Football. Un rettangolo di erba, pads e un pallone ovale. Ma anche molto, molto di più.
Buon college football a tutti!
“There are no Cindarellas”
Non ci sono Cenerentole. Non esistono. Come a dire: nulla accade per caso. Gli upset non sono frutto di casuali ed incontrollabili circostanze. I trofei, gli anelli, le coppe, le medaglie non sono improvvisi e generosi regali del Caso. No.
C’è di più. Molto di più.
Gli highlight di un sabato pomeriggio sono figli legittimi di una sessione in sala pesi di Febbraio. Un touchdown nello Sugar Bowl è la naturale conseguenza di un extra sprint un pomeriggio afoso di luglio quando ogni lembo del tuo corpo- per non dire ogni millimetro di materia grigia del tuo cervello- ti dicevano, suggerivano, imploravano di smettere, magari di tornare a casa e bere una birra con gli amici. La gloria- quella gloria che tutti ti invidiano e di cui forse alcuni vorrebbero vederti depredato- è tutt’altro che un prodotto pre-confezionato del Destino, tutt’altro che priva di consistenza: ha un odore ed è quello del tuo sudore, ha un prezzo ed è quello di tutto ciò che hai sacrificato.
“There are no Cindarellas”
Accendiamo la televisione, ascoltiamo la radio, leggiamo i giornali, controlliamo il nostro social network di preferenza e ci sentiamo dire- costantemente, insistentemente- che siamo meritevoli di qualcosa, che siamo belli, forti, intelligenti, fighi sufficientemente per meritarci quella vacanza, quella nuova TV, quel telefonino di ultima generazione. Tutto senza discriminare tra chi ci mette il cuore, l’anima, il sudore e chi attende lo svolgimento del proprio Destino passivamente e pavidamente.
Self-entitlement, come direbbero gli americani.
Poi invece capita a quelli come me- che hanno deciso di fare dell’educazione di giovani uomini e donne una ragione vita oltreché una professione- di dover pazientemente e tenacemente smontare queste costruzioni sociali e psicologiche e ricordare a coloro che domani saranno la materia prima della nostra società che no, nulla ci spetta di diritto, nulla ci è concesso per grazia, nulla può essere considerato nostro permanentemente per diritto. Tantomeno il successo, tantomeno la gloria.
E non c’è scuola migliore per attuare questa rivoluzione di pensiero che un rettangolo di erba, pads e un pallone ovale.
Football.
Sudore. Disciplina. Rispetto dell’autorità. Sacrificio. La squadra prima di sé stessi. E- soprattutto- totale, completo disinteresse per lo status sociale, il colore, il cognome degli individui.
Football.
Pura adrenalina nelle ore immediatamente prima del kickoff. Tensione, paura di sbagliare, altalena emotiva durante. Dolorosa frustrazione o contagiosa, raggiante soddisfazione dopo.
Football.
Consapevolezza di essere sullo stesso, identico piano di tutti gli altri e di avere una sola strada percorribile verso il successo: il lavoro.
Le Cenerentole non esistono. O meglio, esistono; ma nelle menti di coloro che si sentono vittime innocenti del destino, di coloro che vogliono annusare l’odore inebriante della vittoria senza prima aver sentito quello acre e nauseante del sudore. Ma certamente le Cenerentole non esistono nei cuori e nelle teste dei vincenti, di chi arriva prima all’allenamento e va via ultimo, di chi snobba una festa per ripassare il playbook, di chi si sveglia alle 5 della mattina per arrivare a scuola alle 6 e allenarsi in palestra prima del suono della campanella. La parola “Cindarella” non era nella mente di Michael Jordan al momento del tiro decisivo contro Georgetown nella finale NCAA del 1982, o in quella di Corey Lynch nell’attimo in cui bloccava l’ultimo field goal in quella che è ancora oggi ricordata come la più grande “sorpresa” nella storia del College Football un pomeriggio di tardo agosto ad Ann Arbor, Michigan.
Le parole, i pensieri erano altri. Cose come two-a-days, gassers, squats, repetitions, film sessions. Il successo, la gloria appartengono a coloro che li scelgono, che decidono di prendere in mano il proprio destino e plasmarlo a loro immagine e somiglianza invece di lasciare che il contrario accada. Questo è il football, questa è la vita. E allora che Dio benedica questo sport perché oltre ché farci divertire per cinque mesi all’anno ci ricorda- se abbiamo intenzione di ascoltare, almeno- di cosa sia il successo e quale sia la differenza tra vincenti e perdenti.
Football. Un rettangolo di erba, pads e un pallone ovale. Ma anche molto, molto di più.
Buon college football a tutti!